Bormio, 23 luglio 2023 – Al Bano Carrisi, l’uomo dalla vita più raccontata, commentata, sezionata, indagata, invidiata, criticata, compianta, della musica italiana. Cos’altro abbia da aggiungere e da togliere l’idolo di Cellino San Marco alla narrazione di pubblico dominio lo scoprirà stasera a Bormio il pubblico della Milanesiana dove l’ottantenne tonante della canzone italiana è in scena alle 21 in Piazza del Kuerc con i figli Yari, Jasmine e Albano Jr.
Ascoltare Al Bano raccontarsi assieme ai figli è una bella opportunità.
«Mi confronto molto coi miei figli e li ascolto a mia voglia sempre con grande interesse. Ricordo, ad esempio, quando nel 2001 Yari rientrò a Cellino dagli Stati Uniti dicendo che non voleva più vivere a New York perché aveva fatto un sogno terribile coi grattacieli che crollavano e il terrore che dilagava nelle strade. Lì per lì detti la colpa ai film catastrofisti di cui era appassionato. E invece».
Pure a lei è accaduto di vivere i suoi sogni?
«Sì, più di una volta. Penso sia un dono di famiglia”.
Nel 1960 arrivò a Milano con la valigia di cartone.
«Già, un emigrante che non doveva attraversare il mediterraneo ma come quelli di oggi si avventurava verso realtà, lingua e atteggiamenti sconosciuti. Come attraversare un Mediterraneo solido. C’è voluta una grande tempra per resistere qui al Grande Nord, ma alla fine ce l’ho fatta».
Il primo ricordo che le torna alla mente della Milano di quegli anni?
«Un distinto signore che, ad una certa ora, si materializzava tra i tavoli del ristorante in cui servivo, consumava la cena, e aspettava di essere raggiunto dalla sua donna, per prendersela sottobraccio e andarsene poi felici incontro alla notte. Lei era una bella di notte e lui il suo mantenuto, coppia sconvolgente agli occhi di un ragazzo tutto casa, chiesa e campagna come me».
Lei è popolarissimo ad Est, però in questi anni ha rinunciato ad esibirsi lì. Che impressione le ha fatto la scelta di Pupo di cantare in Bielorussia.
«E chi sono io per giudicare? Ognuno è libero di fare ciò che vuole. Però, finché c’è la guerra, io ad esibirmi là non andrò. Capisco Putin, perché quando il tuo territorio è minacciato, non puoi non reagire. Quello che ha sbagliato è il tipo di reazione, non si invade la terra degli altri coi carrarmati. Errore grave».
Giusto che una persona pubblica racconti tutto di sé. Ma lei come fa a lasciarsi riaprire ad ogni intervista ferite profonde come la scomparsa di sua figlia Ylenia o la separazione da Romina?
«Penso di capire la natura umana un po’più di prima e mi rendo conto che, forse, dietro certe domande non c’è poi tutta la cattiveria che ci ho visto per tanti anni. Mi rendo conto che per tanti italiani sono uno di famiglia e, quindi, rispondo come risponderei a dei familiari».
Non deve essere facile.
«Un giorno Franco Franchi mi raccontò della volta in cui dovette comparire in tribunale per rispondere della foto assieme ad un indagato di mafia. Alla domanda del magistrato allargò le braccia dicendo: signor giudice io non sono mio, sono della gente. Aveva ragione».
Un aspetto della sua vita su cui mettere l’accento davanti al pubblico di Bormio?
«Il giorno in cui io e Romina ci sposammo sui giornali si scatenò il toto-matrimonio: durerà una settimana, no, durerà un mese, un anno al massimo. Beh, è durato trent’anni. Ed è stato amore vero, nella gioia e nel dolore, come ci eravamo promessi davanti a Dio».