Milano, 27 marzo 2016 - «TUTTE le lettere d’amore sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole». Non c’è alcun cinismo, nell’osservazione acuta di Fernando Pessoa. Tutt’altro. Semmai, la puntuale comprensione della dimensione del racconto d’amore. Tra banalità (“Night and day/ You are the one”, cantava Cole Porter, in un capolavoro essenziale della canzone d’amore) e assoluto (“Volo ut sis”, generosamente e irrimediabilmente, secondo sant’Agostino).
Dunque, letteratura d’amore. In sapienti mani di scrittura. Come quelle di Ugo Riccarelli, in “Lettera d’amore e d’addio”, Mondadori. Già, perché i due termini sono in fin dei conti inscindibili. Eros e Thanatos, secondo la tradizione letteraria, no? Così si comincia con la distonia delle aspettative, delle intenzioni e dei motivi veri dei gesti e delle scelte tra una pittrice e un suonatore di sax, vent’anni più anziano. E si va avanti, in racconti brevi e intensi, tra innamorati e familiari, sfide sentimentali e sportive, illusioni e dolorose verità: «I sogni sono brutte gatte da pelare, sono montagne immense nella neve di maggio… sono facce storte dall’urlo che intravedi giù per la discesa, con gli occhi che lacrimano…». Riccarelli è stato un gran narratore di storie, tra radici e un futuro che appena s’intuisce, in quotidianità di speranze e dolore. Dopo “Il dolore perfetto” e “L’amore graffia il mondo”, questi racconti ne sono malinconica conferma.
È analogo il piano su cui si muove Pino Corrias in “Disordini sentimentali” ovvero “nove storie d’amore più una”, Mondadori: uomini e donne che, ognuno a suo modo, si incontrano e si perdono in un sorriso, un equivoco, l’inseguimento d’una antica storia che si lacera drammaticamente tra i ghiacci del Canada e le ambizioni ambigue dei pubblicitari di successo milanesi, i legami tra supposizioni amorose e appartenenze malate sino alla violenza, il mal di cuore che diventa malattia vera, le doppiezze, il narcisismo egocentrico che nega l’amore. Più sofferenza che felicità.
Non si muore per amore, è vero. Si resta però comunque lacerati, amputati, orfani. Lo racconta bene Paolo Di Paolo in “Una storia quasi solo d’amore”, Feltrinelli. Lui è Nino, attore che ama “far ridere le persone”. Lei è Teresa, donna controversa e complessa, che cela un mistero “portato con semplicità” e chiede al rapporto d’amore d’essere molto di più d’un gioco, d’andare con movimenti complici dei due amanti alla scoperta dell’essenza, della verità. Amori intessuti di occhi complici e pensieri e di felicità dei corpi intrecciati, senza cui nulla è possibile. A raccontarli è Grazia, maestra di Nino, zia di Teresa: uno sguardo che sa cogliere e restituire ai lettori il senso della sfida di vivere insieme. O il dolore travolgente della separazione.
Ecco un punto chiave, nella letteratura (e nella vita) d’amore: il dolore. Sa ben darne conto Ludina Barzini in “Solo amore”, Bompiani. Lei è Lucrezia, cinquant’anni, una vita tutto sommato serena, anche se senza passioni. Lui è Gianni, medico, il primo amatissimo marito di Lucrezia. Che d’improvviso riemerge dal passato, malato, in cerca di verità. Rivedersi, ricostruire il perché d’un allora misterioso abbandono, provare a ricomporre pezzi frantumati d’un amore che forse può ancora reggere il tempo, costruire ponti verso pianeti apparentemente inaccessibili in cui ognuno dei due s’è rinchiuso. Ci riusciranno, Lucrezia e Gianni? Chissà. Succede raramente di ritrovarsi. Quasi mai. Ma anche a questo serve la letteratura. A coltivare sogni, pur quando sconfinano nelle illusioni.