
Il basso di James Johnston
Milano, 2 febbraio 2017 - Scozzesi e italiani hanno in comune molte più cose di quante non ne riescano a condividere altri popoli. I Biffy Clyro se ne dicono convinti lungo la strada che li riporta a Milano, oggi al Fabrique, dopo la showcase acustica all’Unicredit Pavilion dello scorso settembre per la presentazione dell’ultimo album “Ellipsis” e il passaggio estivo sul palco dell’I-Days di Monza. Che Simon Neil, chitarra, James Johnston, basso, e Ben Johnston, batteria siano dei numeri uno, dei campioni dell’alternative, lo dicono le cifre, se è vero che “Ellipsis” è riuscito nell’impresa di doppiare il successo del predecessore “Opposites” afferrando la vetta delle “charts” non solo oltre Manica, ma pure in Germania, Irlanda e Svizzera. A parlarne è Neil, leader della band delle Highlands e autore di tutte le canzoni.
Quanta pressione vi aveva caricato sulle spalle il successo di “Opposites”?
«In giro c’è un sacco di gente pronta a dirci cosa fare e cosa no, ma noi ci teniamo alla nostra indipendenza, alla nostra serenità, anche perché se non fossimo felici la gente lo capirebbe immediatamente dalle canzoni. Di solito, infatti, compongo nei momenti d’inquietudine e uso i pezzi come valvola di sfogo. Così il rock finisce per avere un ruolo terapeutico, in quanto riascoltare certe canzoni mi aiuta a scoprire cosa pensavo, o cosa provavo, nel momento in cui le ho scritte».
Alcuni pezzi li avevate anticipati già al pubblico dell’I-Days. Com’è stata la risposta?
«Più forte che in altri paesi, ma in fondo ce l’aspettavamo; i fans italiani, infatti, sono sempre molto passionali. Cantano, gridano, ci fanno sentire il loro calore in ogni modo. Visto che “Opposites” era un doppio mentre “Ellipsis” no, eravamo curiosi di capire che reazione avrebbe avuto il pubblico alla maggior sintesi del nuovo album. I segnali sono stati confortanti».
Pure lo show adotta questa sintesi?
«Diciamo che la scelta minimale ci piace, perché vogliamo essere una band senza fronzoli. Come i Pearl Jam. Minimale non sarà, invece, la durata dello spettacolo perché abbiamo grande rispetto per i nostri fans; anche se, quanto a durata, non siamo certo Bruce Springsteen”.
Al grande pubblico siete arrivati nel 2009 grazie ai concerti con i Muse. Cos’è cambiato da allora?
«Siamo ancora gli stessi e continuiamo a lavorare nella una fattoria dell’Ayrshire in mezzo al nulla in cui siamo cresciuti. Certo, la popolarità è un po’ aumentata rispetto a sette anni fa, abbiamo più impegni, qualcuno ci riconosce per strada, ma il nostro animo scozzese ci tiene bene con i piedi per terra».
Con chi vi piacerebbe mischiare le carte?
«Se i Pearl Jam avevano il sogno di collaborare con Neil Young - e ci sono riusciti tra i solchi di “Mirror Ball”- a noi piacerebbe tanto collaborare con loro… nella speranza di trovare un giorno qualcuno desideroso di farlo con noi e continuare così la catena. A parte gli scherzi, la band di Eddie Vedder è una delle più grandi realtà emerse nelle ultime due decadi e un riferimento assoluto per noi e per tutti noi che facciamo questo tipo di musica».
In Italia venite spesso.
«Mia moglie Francesca (Pieroni - ndr) è per un quarto toscana, di Barga. Purtroppo siamo sempre in viaggio. Nonostante ci fossimo stati diverse volte, siamo riusciti a farci un’idea di Milano solo in occasione dell’ultima visita, approfittando di quattro giorni di promozione. Perfino quando abbiamo suonato al Circo Massimo di Roma, come supporter dei Rolling Stones, non siamo riusciti a trovare abbastanza tempo per visitare la città».