Milano, 9 novembre 2023 – ll maestro Serafin aveva invitato Luchino Visconti a casa sua perché voleva che conoscesse, ma soprattutto sentisse, una sua nuova scoperta: ci andai anch’io. Si dicevano meraviglie di questa ragazza greco-americana che era stata protagonista di un’impresa ormai storica nel mondo dell’opera: andata alla Fenice per cantare Isotta, aveva dovuto rimpiazzare Margherita Carosio, per un’indisposizione, preparandosi nel giro di quattro giorni a una parte assolutamente nuova per lei, quella di Elvira nei Puritani. Circolava anche la storiella secondo cui questa ragazza, che imparava la musica a prima vista, stentasse invece molto a imparare le parole, data anche la poca dimestichezza con la nostra lingua. Pare addirittura che la famosa arietta “Son vergin vezzosa...“ diventasse in bocca a lei “son vergin viziosa...“.
Questa “vergin viziosa“ era dunque là, nel soggiorno pariolino di Serafin, alta e robusta, capelli rossi e lunghi, arricciati alla Rita Hayworth, ingoffata da un tailleur di lana nera tagliato come quelli delle ausiliarie del tempo di guerra, occhiali spessissimi, voce tagliente e stridula, un accento spesso indecifrabile, per niente intimorita trinciava giudizi con una sicurezza che sarebbe stata eccessiva per una grande e matura cantante.
Serafin, che da un pezzo non parlava, si sedette improvvisamente al pianoforte e troncò ogni discorso: «Basta, Maria. Vieni qui e canta». Maria, ubbidientissima, si alzò subito, si tolse gli occhiali e si mise in piedi accanto al pianoforte. Il maestro attaccò allora l’arioso della Traviata e io mi trovai di colpo, come tutti del resto, trascinato di peso su un pianeta dove quella ragazzona sgraziata dettava legge. Una presenza quasi soprannaturale era calata fra quelle mura: un caso di stregoneria bello e buono. Era la prima volta che sentivo cantare la Callas: da allora, ogni volta che Maria ha cantato, fosse anche quando accennava a qualche scaletta prima di entrare in scena, o anche in serate infelici e burrascose, non ha mai mancato di rinnovare il suo straordinario ed inspiegabile incantesimo. La Callas è nata così, con questo autentico potere di trasfigurazione attraverso la voce. E tutto quello che è stato fatto poi per lei da maestri, registi, consiglieri, amici e mariti - non esito a riconoscerlo - non è stato altro che fornire legna nuova per il suo fuoco. Con questo fuoco è nata (pare addirittura che già nella culla rompesse i timpani a chi le si avvicinava) e soltanto così si può spiegare la sua dimensione unica e irripetibile. Io l’ho sentita spesso parlare, quando preparava Medea, della Colchide e delle tradizioni magiche di quell’antico Paese. Dava un certo disagio, sembrava fosse veramente in comunicazione con forze familiari soltanto a lei, e che noi, comuni mortali, potevamo appena percepire. Una dimensione in più, la sua, che unita al più feroce professionismo e alle intuizioni d’arte più elevate e coraggiose, le ha permesso col canto e con l’interpretazione drammatico musicale di dare luogo a una delle espressioni culturali più alte del nostro tempo.
È tuttavia imprudente associare Maria Callas a espressioni come “cultura“ o “culturale“, perché a essere giusti, almeno secondo i canoni correnti, questa donna è sempre stata un autentico abisso d’ignoranza. Di rado la si è vista leggere un libro, seguire attentamente una conferenza, visitare una mostra di pittura, spendere tempo in tributi più o meno sinceri alla prassi del viver colto. Tutta la sua statura poggia su basi diverse ma probabilmente più autentiche: intuizione e praticità. Parlare di lavoro è stato quasi sempre un’esercitazione a vuoto. Maria voleva “sentire“ e “vedere“.
«Fammi vedere qualcosa poi ne riparleremo», era la frase con cui chiudeva le conversazioni di lavoro. Per questo quando facemmo insieme una Traviata a Dallas, per molti versi nuovissima, mi premurai di metterle prima di tutto sotto gli occhi il ritrattino di una giovane parigina del tempo della Duplessis, che avevo preso a modello per Violetta Valéry. «Me la dai così, senza neppure una cornicetta?», mi chiese dopo averla rapidamente e velocemente scrutata. Gliela riportai incorniciata e da allora, sino al giorno della prima, quel ritrattino restò sempre sul suo tavolo da toilette. E fu un’esperienza curiosa e appassionante vederla a poco a poco trasformarsi secondo quell’immagine, e non propriamente dal “di dentro“, come si dice, ma letteralmente con vere e proprie alterazioni di personalità, di strutture fisiche e di fisionomia.
Il caso più clamoroso di questo suo potere di identificazione con un’immagine lo si ebbe al tempo del suo improvviso e rapidissimo dimagrimento. Ma nessuno ha mai ben capito come avvenne, forse neppure lei.
Maria, nei primi tempi in cui era in Italia, sembrava destinata all’obesità perpetua, come la Tetrazzini o la Pagliughi. Le sue rivali tirarono un sospiro di sollevo. Invece lei decise di dimagrire. In quegli anni a Roma per girare Vacanze Romane, Audrey Hepburn lanciò un nuovo tipo di bellezza che fece subito epoca. Tutte le donne volevano assomigliarle. Maria non fu da meno delle altre: si mise davanti agli occhi una fotografia della Hepburn e nel giro vertiginoso di poco meno di un anno, sottoponendosi a sacrifici di ogni genere, perse più di trenta chili trasformandosi non certo in quella deliziosa creatura che era la Hepburn, ma in una donna letteralmente diversa da quella che era stata fino ad allora. Cominciò a vestirsi e e a truccarsi bene, a gestire in modo nuovo, e imparò il segreto di farsi fotografare sempre dall’angolo giusto e con la luce giusta.
Cito questi episodi per offrire una spiegazione realistica a certi aspetti del personaggio Callas, mentre accetto senza discutere, come un dogma, il miracolo della sua eccezionale dimensione di artista. Insomma Maria è stata sempre un groviglio drammatico di lotte, trionfi, debolezze, errori, di scelte sempre esatte nel suo impero di artista, e quasi sempre sbagliate nella sua vita di donna. (...)