ANDREA SPINELLI
Cultura e Spettacoli

Clementino si racconta: "Il rap mi ha salvato la vita"

Il riscatto, il successo. E il nuovo album Tarantelle

Clemente Maccaro, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Clementino

Milano, 4 maggio 2019 - Clemè spacca  tutt’‘e cose!”. Quella voce interiore che gli ha cambiato la vita fin dalla prima rima, continua a tenere Clementino sulla strada del rap. Anzi di quella terapia coreo-musicale che evoca già il titolo del suo nono album “Tarantelle”, presentato ieri sul palco del Teatro Verdi di via Pastrengo, col cuore ai ritmi del suo Sud e il pensiero al morso della taranta, da lenire ballando assieme a compagni di strada che si chiamano Fabri Fibra, Gemitaiz, Nayt, Caparezza. Il risultato di un lungo percorso, né agevole né indolore, avviato dal musicista campano, 37 anni, dopo la delusione di un Sanremo sbagliato e il disperato bisogno di guardarsi allo specchio in cerca di una redenzione. Un “melting pop” di riflessioni dal sapore cantautorale e quello che lui chiama “Black Pulcinella”, ovvero l’esplosiva commistione di hip-hop americano prima maniera con le sue radici partenopee, che sono le stesse di Pino Daniele, James Senese o Enzo Gragnaniello.

L’arpeggio di “Mare di notte”, ad esempio, rimanda molto a quei mondi.

«Il figlio maggiore di Pino dice che suo padre aveva molto rispetto di me della mia musica, anzi una volta mi disse “guagliò, ’sto piezzo tiene “e pennellate mie”. Ricordo ancora la volta che nei camerini del PalaPartenope, a Napoli, lo sentii accennare alla chitarra la mia ‘O’ vient’, forse a dirmi che dovevo fare quelle cose».

“Un palmo dal cielo” di cosa parla?

«C’è stato un periodo in cui non sognavo più. Così quando ho ripreso, per paura di scordarlo, non appena sveglio m’appuntavo il sogno fatto. Dopo qualche tempo mi sono ritrovato il cassetto pieno di fogliettini e li ho trasformati in una canzone».

Dice che la musica le ha salvato la vita. Perché?

«Nei momenti di difficoltà, al posto di perdere tempo in strada a fare cose brutte mi sono chiuso in studio a far canzoni. Se non ci fossero state la musica, gli amici e la famiglia sarei caduto nel baratro. Cerco di ricordarmene sempre. Sono appena tornato, ad esempio, dall’Etiopia, dove ho girato uno spot per l’Agenzia Italiana di Cooperazione Sviluppo».

Quel baratro lei l’ha visto da vicino.

«Sì. E a quei ragazzi che inneggiano alla droga vorrei dire che lo so io quel che ho passato per via della cocaina. Stavo morendo. Due ricoveri in comunità, lo psicologo, e due anni d’inferno. Ora, però, sto bene, sono felice e mi voglio vivere la vita da cantante… famoso».

Farebbe il giudice di talent?

«Sì, lo farei. Ma non di un talent rap. Ho iniziato nei villaggi turistici in Sicilia e in Sardegna, fare lo showman mi piace».

A proposito, il teatro ha sempre fatto parte della sua vita.

«A Cosenza, durante la permanenza in comunità, organizzavo spettacoli; ero un po’ come il prete di “Scugnizzi”, il musical di Mario Martone. Ho messo in scena pure “E fuori nevica” di Vincenzo Salemme».

In “Gandhi” punta il dito su chi ha “rovinato una rap-generazione”. I trapper?

«No, il rap dell’apparenza. Una generazione di ragazzini interessata solo ai like. Contesto questo culto dell’apparire che è lontano dalla vera essenza dell’hip-hop, che è pace, amore e soprattutto saper rappare a tempo. Io prima di mettermi il cappellino al contrario, ho sentito il bisogno di diventare bravo nel freestyle».