
Il regista Silvio Soldini sul set con “Le assaggiatrici“ (Foto Matteo Vegetti)
Milano, 25 marzo 2025 – "Per desiderare di tradurre in immagini un romanzo deve accadermi qualcosa. Devo sentire una sorta di attrazione. E una parte sensibile di me deve sentirsi a casa in quella storia, nei personaggi, nelle emozioni che porta a galla". E con Le assaggiatrici il regista Silvio Soldini si è sentito "a casa", nonostante gli anni e i chilometri di distanza dalla “sua“ Milano. Ieri sera l’anteprima all’Anteo, dopo il debutto al Bif&St - Bari International Film&Tv Festival. Sarà nelle sale da giovedì.
Cosa l’ha “catturata“ del romanzo di Rosella Postorino?
"In primo luogo la scrittura, che trascina nel racconto, fino alla fine. Il personaggio di Rosa è molto bello, forte, pieno di contraddizioni. Tanti miei film hanno come protagonista una donna, in questo caso con Rosa c’è un gruppo di altre nove donne, le assaggiatrici incaricate di tenere - in un certo senso - in vita Hitler, costrette ad assaggiare i piatti per capire se sono o meno avvelenati: una vera roulette russa. Ho cercato di dare a ciascuna carattere, vita propria e una sua complessità".
È il suo primo film d’epoca, in costume. La sfida più grande?
"Il più grande timore era che il film non riuscisse a far rivivere la storia vera di queste donne. Quando guardo i film in costume, da spettatore, troppo spesso sento una sensazione di costruito, di finzione, una difficoltà a credere come vorrei ai personaggi. A me piace partecipare, essere vicino: voglio conoscerli e immedesimarmi con loro. Pur prestando la massima attenzione ai costumi, all’ambientazione e al trucco ho cercato di farlo anche in questa storia, che se ci pensiamo bene potrebbe appartenere non solo al passato, ma a una realtà distopica".
Si era già cimentato con un film in lingua straniera, il ceco, per Brucio nel vento. Com’è andata col tedesco?
"Fin dall’inizio non ho avuto dubbi: una storia del 1943, ambientata in Germania e in guerra, non poteva che essere raccontata in tedesco. Dà autenticità. E ho trovato bravissimi e generosi attori e attrici: hanno avuto voglia di buttarsi anima e corpo. Io non conosco il tedesco e non l’ho imparato un granché durante le riprese. Ma è meno difficile per un regista girare con attori che parlano un’altra lingua rispetto alla sfida del film in costume: per comunicare c’è sempre la lingua-ponte dell’inglese, un interprete in caso di necessità e sai cosa si sta dicendo senza bisogno della singola parola. Sei nella storia".
C’è una dedica speciale: ad Antonella Viscardi, direttrice di produzione, scomparsa di recente. Con lei aveva iniziato a dare forma a questo film.
"Ne abbiamo fatti tanti insieme: quante discussione, litigate, abbracci. Ho cercato di capire cosa intendesse dire con la frase: “Questa è una grande storia... che devi dipingere con un piccolo pennello“. E ho provato a farlo".
Un altro protagonista è il tempo. Sono trascorsi 40 anni dai primi documentari, 25 da Pane e tulipani: questo film rappresenta un altro punto di svolta nella sua carriera?
"Non so ancora quale sarà il suo ruolo, lo capirò più avanti. Certo è una grande novità per me realizzare un film in un’altra epoca e non è uno scherzo. Per questa storia abbiamo dovuto inventarci un altro tempo, tutto suo. Dall’inizio alla fine del film passa un anno: in ogni stagione accade qualcosa, abbiamo inseguito il tempo e Rosa nelle sue emozioni e vicissitudini, in sette settimane di ripresa".
All’anteprima un commento circolava in sala: "Non sembra un film italiano". Come lo legge?
"Sono abituato a sentirlo dai miei primi film. Forse sarà dovuto al fatto che sono in parte svizzero o che ho visto più film francesi, tedeschi, inglesi e “del mondo“. Insomma, il cinema italiano non è stato l’unica e la principale fonte di abbeveraggio: negli anni Settanta era il cinema tedesco quello che mi emozionava di più, con i film di Wenders e non solo".
Com’è stato sentire il polso del pubblico, alla “prima“?
"L’ho sentito respirare e soprattutto abbiamo sentito l’applauso finale, che ha sorpreso gli attori tedeschi: non sono abituati a 10 minuti di applausi e a essere fermati dal pubblico per le domande. Un’esperienza indimenticabile anche per loro".
Mentre accompagna il film nelle sale, “fa scuola“: è stato ingaggiato all’università, per Ied Cinema. Com’è lavorare con i ragazzi?
"Da anni mi occupo di formazione con Officine Ied e adesso con Cinema Ied. Lavorare con i ragazzi costringe a pensare in modo diverso, per aiutarli ad andare verso quello che vogliono ottenere, senza essere impositivi. Lo scambio però è reciproco. E c’è spazio per sperimentare, capire, provare".