Milano – Forse se ne stava meglio a fare il modello. Così a naso. Invece che con tutta la famiglia in Finlandia, a ragionare sull’esistenza di Babbo Natale mentre emergono verità scomode. D’altronde il teatro può essere sfida impervia. Lo sa bene Sergio Múñiz, protagonista di "Lapponia", fortunatissima commedia scritta da Marc Angelet e Cristina Clemente. Da stasera a domenica all’EcoTeatro, per la regia di Ferdinando Ceriani. Con l’attore (e musicista) spagnolo Miriam Mesturino, Cristina Chinaglia e Sebastiano Gavasso.
Sergio, com’è dunque questa Lapponia?
"Fa ridere ma è un lavoro dove la comicità è di situazione. È stata un successone in Spagna e Sudamerica, racconta di stereotipi, bugie, scheletri familiari. In qualche modo anche di magìa, mettendo in contrapposizione il pragmatismo nordeuropeo con la visione del mondo più creativa di noi latini. Non offre risposte se non la conferma che la verità è questione i punti di vista".
Considerazione ecumenica. E lei effettivamente sembra un buono.
"Ha detto bene: sembro. Sono molto riservato e rimango un timido, lo sono sempre stato, anche se il lavoro mi ha aiutato. Può essere un problema, sa? Da una parte è un bene, ti aiuta a capire i limiti e a dare una misura alle situazioni, nella vita come sul palco. Io poi non amo le esagerazioni, il troppo. Perfino troppa verità può essere negativa. Ma a volte la timidezza arriva a bloccarti, limitare quel che sei".
Anche il successo può avere gli stessi sintomi.
"E infatti non è stato facile. In realtà stavo già lavorando bene come modello ma non è una professione che ti porta a essere riconosciuto per strada, soprattutto gli uomini. L’Isola dei Famosi nel 2004 rivoluzionò tutto. Improvvisamente mi era impossibile fare la spesa, entravo al supermercato ma non sapevo quando ne sarei uscito. Piano piano però ho capito".
Che cosa?
"In realtà è uno scambio. Il successo ti dona delle opportunità, qualsiasi progetto ha già una preziosissima base di pubblico. Ho quindi iniziato a vedere la fama come una responsabilità, in cui ricevevo ma dovevo anche dare attraverso uno spettacolo o l’emozione di una canzone".
Che ricordi ha di quando arrivò a Milano a 19 anni?
"Le direi che è stato complicato nonostante provenissi dai mercati di frutta, dove mi svegliavo alle quattro e mezza del mattino per spostare casse e fare consegne. E così è stato anche nei primi anni qui in Italia, perché a lungo ho continuato a tornare a casa per sei mesi, andando a lavorare con mio padre. Tanti amici con cui sono arrivato hanno desistito in fretta, bisognava essere tenaci. Anche perché la città era completamente diversa".
Dove viveva?
"In Paolo Sarpi al 50. E non era il quartiere di oggi. Avevo affittato una stanza da un signore che nonostante avesse un altro appartamento sotto il nostro dove stava la moglie, preferiva dormire con noi perché non si fidava... La situazione era questa. Una Milano senza grattacieli, dove il quartiere Isola era isolato sul serio".
Quando ha capito di avercela fatta?
"Ancora adesso preferisco non pensare in questi termini. Il mio lavoro è fatto di alti e bassi, quando credi che qualcosa ti sia dovuto è la fine. Bisogna sempre evolvere ed essere progettuali, mettersi in discussione. Perché una delle cose più difficili è proprio il fatto di venire costantemente giudicati. Pure troppo".
C’è qualcosa che oggi farebbe in maniera diversa?
"Sicuramente. Ma visto che mi piace il mio presente, mi tengo strette le scelte che mi hanno portato fino a qui. Credo molto nel karma, quindi tutto conta".
Un sogno?
"Ne ho una cassettiera piena, suddivisi per possibilità".
Prendiamo allora lo schedario dei sogni concreti.
"Ho scritto “Tra le mie onde“, uno spettacolo di teatro-canzone un po’ alla Gaber, solo che lui era un genio e io devo sudare. Mi è già capitato di farlo, ora vorrei portarlo in giro in maniera più strutturata".