
Daniel Pennac
Milano, 7 maggio 2017 - Faccia a faccia con Daniel Pennac. Con i suoi occhialini tondi, il suo sorriso aperto. Parla e sui fogli bianchi appoggiati sul tavolo disegna, disegna e disegna. Terzo piano della Feltrinelli Editore, tardo pomeriggio, una mansarda e la pioggia che batte sul lucernaio.Si può decidere di fare lo scrittore per tanti motivi. Daniel Pennac lo ha deciso una sera, mentre con una piccola torcia cercava di leggere un romanzo di Alexandre Dumas senza farsi scoprire. Era in collegio e lì era proibito leggere, ma lui capì cosa avrebbe voluto fare da grande. Il secondo motivo: da piccolo Pennac viaggiava al seguito del padre, militare in carriera. Da quest’esperienza la voglia di prendere carta e penna: era il 1973, quando pubblicò il suo primo libro “Le service militaire au service de qui?” in cui descrisse la caserma come un "luogo tribale". Per non nuocere al padre, usò lo pseudonimo Pennac, abbreviazione del suo vero cognome, Pennacchioni. Più in lá negli anni un amico gli disse: tu scrivi libri ma forse non sei capace di scrivere un giallo. Pennac accettó la sfida e nacque così il ciclo dei Maulessène, famiglia strampalata di sette figli nati da una mamma nomade, e tutti e sette avuti da padri diversi. Con il protagonista della saga, Benjamin, di professione “capro espiatorio” (lo sfortunato che finisce nei guai)... E da lí il successo planetario di uno scrittore che ha venduto milioni di copie e che scatena nelle persone lo stesso seguito ed entusiasmo che suscita un divo. L’altra sera alla presentazione del suo nuovo libro “Il caso Malaussène - Mi hanno mentito” (Feltrinelli) tanta gente in coda e applausi scroscianti per lui.
Lei fece una dichiarazione: “Non scriverò mai più dei Malaussene”. Perché non ce l’ha fatta a lasciare la sua famosa tribù nel cassetto?
"Un giorno firmavo copie in libreria, un’anziana signora mi ha chiesto se avrebbe ancora sentito parlare dei Malaussène. Aveva letto i romanzi su consiglio della nipote. A sua volta, lei li aveva letti su consiglio della madre. Avevo le tre generazioni davanti agli occhi. Quelle tre lettrici mi hanno fatto scattare di nuovo il desiderio".
Nel nuovo libro l’intrigo è ambientato anche nel Vercors, Alpi francesi. C’è un manager, George Lapietá, che viene rapito. C’è Alceste, autore, e c’è Benjamin, che lavora per una casa editrice che pubblica soltanto autori di «vera veritá».... Che vuol dire?
"Vuol dire scrivere un romanzo partendo da se stessi: è l’autofiction, un genere letterario. Alceste è uno di questi autori di autofiction. Per tutta l’adolescenza gli hanno rotto le scatole con i Malaussène che lui odia, ma ci deve convivere perché ora Benjamin si occupa di lui".
Lei dice che in realtá il personaggio principale del libro è il caso.
"Io sono uno scrittore che racconta le cose. Se il lettore si aspetta queste cose il romanzo fallisce. Il caso vince sempre".
Un pregio dei Malaussène?
"Il senso della durata, del tempo. A me, come a loro, piace voler bene alle persone per anni e anni. È così che vivo. Io amo i miei amici (sorride..) e se loro non vengono al mio funerale io non andrò al loro...".
Lei dice che i romanzi rispecchiano quello che siamo. Con le nuove paure - a volte inspiegabili - di questo periodo storico: la paura della violenza, la “paura” diffusa degli immigrati.
"La “paura” degli immigrati è una paura dei ricchi. Si fa credere ai poveri che gli stranieri arrivano per rubare il lavoro. In realtà è il sistema che ha distrutto il lavoro con l’automatizzazione e la delocalizzazione".
Nel libro spuntano riferimenti ai social. Cosa ne pensa?
"La grande differenza tra rete e giornali è che nei giornali si firma ciò che si sostiene".
Le elezioni in Francia: Macron o Le Pen?
"Voterò Macron".
Il suo ritorno al Salone del libro di Torino: negli spazi del grattacielo Sanpaolo ci sarà il suo reading teatrale “Il caso Malaussène”, tratto dal suo nuovo romanzo. L’evento il 18 maggio e lei sarà sul palco.
"Sì, in questo momento preferisco il teatro".
Un libro che l’ha colpita particolarmente?
"La lucina di Antonio Moresco".
Nell’ultima pagina del suo libro c’è la parola “continua”...
"L’avventura continuerà. Con uno o due libri, ancora non so".
Lei ha a cuore la scuola, ha insegnato per 28 anni. E nella scuola ha vissuto entrambi i ruoli: quello del Pennac alunno che arrancava e il Pennac professore, che dedica le sue energie a salvare chi fa fatica. E ha scritto una frase difficile da dimenticare.
"Sì, che ogni studente suona il suo strumento e che una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, ma è un’orchestra che prova la stessa sinfonia..."
La frase finisce più o meno così: se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto. Il problema è che vogliono farci credere che nel mondo contano solo i primi violini...