DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Dario Vergassola: "Io, operaio al porto, poi attore. E la mia vita cambiò di colpo"

Dario Vergassola, in arrivo al Teatro Delfino, si racconta

Dal divano di Serena Dandini con le sue interviste-lampo ai teatri di mezza Italia

Milano, 6 gennaio 2018 - La vita. Il bar. Le canzoni. E poi, ovviamente, la sua amata Spezia. Laggiù sul mare, a qualche chilometro di curve dalla vita. Eppure da sempre un punto di riferimento. Un’ispirazione. Torna lo “Sparla con me” di Dario Vergassola, evergreen della comicità, il 12 e il 13 gennaio ospite del Delfino. Dal divano della Dandini ai teatri di mezza Italia. A raccontare di sé e di una carriera iniziata tardi. Allo Zelig di viale Monza. Mentre ancora si lavorava come operaio al porto. Altri tempi.

Vergassola, ci parli dello spettacolo.

«Ormai è un classico della stand up comedy, quello che una volta era il cabaret. Non lo sapevamo mica noi che si chiamava così quando cazzeggiavamo. Recentemente poi sono stato a Zelig e ho capito che è il momento del vintage: il passato piace sempre. Forse è una garanzia. Tornando da quelle parti ho avuto la sensazione di uscire dal coma, come se mi risvegliassi dopo vent’anni ma tutto fosse uguale a prima».

Un po’ inquietante, no?

«Sì ma politicamente a me sembra davvero tutto uguale. E questo è grave. Rispetto al nostro lavoro invece è anche bello ritrovare un po’ l’atmosfera della Milano città sacra del cabaret. Per noi all’epoca era come New York. Mi piacerebbe che si potesse andare di nuovo alla scoperta di gente che si fa tante serate in giro prima di arrivare alla tv. E non viceversa».

Cosa sta facendo in questo periodo?

«Proseguono su Sky Arte le puntate di “Sei in un paese meraviglioso”, siamo alla terza edizione. Giro poi i teatri con Riondino che cerca di insegnarmi i classici e ogni tanto salta fuori qualche altra robina in tv, come un’ospitata a “Quelli che il calcio” a seguire la Sampdoria. E poi cammino per le Cinque Terre, vado fuori con la barchetta, parlo all’Alimentari. Direi che va bene. Poi sa, avendo fatto l’operaio, tutto quello che arriva è una festa».

Dal porto al cabaret.

«Facevo la Cisa avanti e indietro, prima di partire venti gocce di Lexotan a me, cinque alla macchina. Era un’emozione andare a Milano, Zelig era poco più di un bar, sul palco gente come Milani o Aldo e Giovanni, giocavo a biliardino con Paolo Rossi. Elio e le Storie Tese mi facevano ascoltare i provini in macchina, doveva ancora uscire l’album. Poi tornavo a casa alle cinque e andavo a lavorare. Ero giovane».

Per quanto tenne il doppio lavoro?

«Per diversi anni. Mia madre lavava le scale, non avevamo una lira, avevo il terrore delle bollette che pagavamo in due rate. Se dopo sei mesi fosse finito tutto, che facevo? Avevo anche i due figlioli e mia moglie non lavorava. Questa cosa ovviamente mi ha tenuto in parte fuori dal giro, ma io sono sempre stato bene a La Spezia, è questa la mia dimensione, il quartiere popolare, i vecchi amici. È sempre stato così. E in qualche modo è stata una forza».

In che senso?

«Avere un secondo lavoro mi permetteva di vedere il cabaret come una specie di hobby. I miei colleghi si disperavano per una serata storta, io no. Mi consideravo un privilegiato a fare l’operaio. E poi c’è sempre stata mia moglie ad aiutarmi nel ridimensionare le cose. Lei serissima, rigorosa. La sera che andai al Maurizio Costanzo non mi vide perché si addormentò prima delle dieci…».

Fu quella la svolta?

«Sì, la gente iniziò a salutarmi in mezzo alla strada, mi sembrava di essere nel Truman Show. In una sera mi pagavano quello che guadagnavo in un mese di lavoro. Cambiò tutto, da un giorno con l’altro. Si figuri che colpo per la mia ansia…».