
Enrico Ruggeri
Milano - “Cruel but fair” , dicono gli inglesi. Crudele, ma giusto. "Viviamo la stagione più terribile dell’anno perché in giro si sentono solo pezzi orrendi, reggaeton infarciti di parole spagnole buttate lì a caso", dice Enrico Ruggeri liquidando senza troppi peli sulla lingua le hit da spiaggia e ombrellone. "Per fortuna la musica italiana non è quel che si sente in radio durante l’estate".
Intanto lei se ne va in tour col suo repertorio, a cominciare dall’ultimo singolo “L’America (Canzone per Chico Forti)”, dedicata alla sfida più estrema affrontata dal velista trentino, finito al centro di un caso giudiziario che lo tiene in carcere oltre oceano per un omicidio di cui si è sempre dichiarato innocente. "Quel pezzo l’avevo scritto prima che lo scorso dicembre la Farnesina annunciasse, forse un po’ frettolosamente, il suo rientro in Italia per scontare qui il resto della pena. Ho deciso di pubblicarlo lo stesso col sostegno di tutto il mondo che da più di vent’anni si batte per il riesame della vicenda Forti. Al mio popolo il pezzo è piaciuto, ma le radio non si sono affannate a trasmetterlo. D’altronde affrontare certi temi significa giocare un altro campionato rispetto a quello su cui puntano i network".
Cosa l’ha colpita della questione? "Le due vite di Forti, che ha vissuto immerso nel sogno americano fino quando, in un secondo, è diventato incubo. Lui ha visto entrambe le facce degli States e una frase come ‘E l’America è troppo lontana / Eppure io sono al suo interno’ sta proprio ad esprimere questa distanza tra il paese idealizzato e quello reale".
Cosa l’ha riportata sulla strada? "Ho il senso della famiglia. E nella musica la mia famiglia è la band. E poi era ora di mettere fine al ridicolo scempio dei concerti in streaming".
A proposito di concerti, lei ha parlato di “umiliazioni inflitte alla nostra categoria”. Ma, a fronte della situazione, cos’altro si poteva fare? "Prima di sentirmi dire ‘non sei un virologo, pensa a cantare’ quando mi chiedevano a chi avrei affidato la soluzione del problema pandemico rispondevo: ai filosofi. Perché, a mio avviso, il problema non è tanto medico quanto filosofico. Quando nel 1633 i milanesi, in piena pandemia, decisero di uscire e di tornare a fare la loro vita, la peste pian piano scomparì".
Va beh. Sentire Iggy Pop che canta coi Måneskin che impressione le ha fatto? "Ho provato una sana forma d’invidia. Sono ragazzi che hanno iniziato ad inseguire il loro sogno dalle cantine, senza cercare la benevolenza di follower e influencer, e poi fanno rock. Se la musica italiana che finora ha sfondato all’estero è stata sempre d’impronta molto tradizionale, vedo questi due elementi in modo molto positivo”.
Da interista, che campionato sarà senza Lukaku? "Domanda impietosa. Sto provando un’amarezza incredibile. E non tanto per l’addio di Lukaku, ma per il degrado del calcio. Sono cresciuto con Rocco ed Herrera e non è certo questo il calcio che sognavo di godermi nella seconda o terza (dipende dai punti di vista) parte della mia vita".
Deluso? "Molto. Mi spiace soprattutto per i miei figli più piccoli, a cui non so spiegare perché un campione come Lukaku va via. Fra l’altro mi sembra pure un clamoroso autogol commerciale".