Ezio Bosso in concerto al Dal Verme. Le dodici stanze del coraggio e della fragilità

di ANDREA SPINELLI

Il pianista Ezio Bosso

Milano, 3 maggio 2016 - Per Ezio Bosso il coraggio è un po’ come l’amore: sa riconoscere la paura, ma poi riesce ad andare oltre. Un’associazione cara al pianista torinese, ripetuta sovente in interviste punteggiate con parole di coraggio che allo stesso tempo sono anche parole d’amore. Lo show con cui sbarca oggi al Dal Verme, per incamerare l’ennesimo sold-out di una lunga serie, aggiunge a questa commistione un terzo elemento: la musica. E lo fa con le suggestioni di “The 12th Room”, l’album registrato un anno fa al Teatro Sociale di Gualtieri, Reggio Emilia, e poi lanciato (grazie anche all’exploit al Festival di Sanremo) ben oltre il disco d’oro. «Le dodici “stanze” sono quelle che attraversiamo nel corso della nostra esistenza- ripete Bosso - La dodicesima stanza è anche la prima, quella in cui si ricordano tutte le altre e quindi quella in cui si è pronti per ricominciare».

Guardandosi indietro, il musicista piemontese ricorda forse sommariamente il passaggio delle prime undici stanze, ma sa bene quando è entrato nella dodicesima; quel giorno del 2011 in cui gli hanno diagnosticato una malattia neurodegenerativa a cui poi si sono associati altri problemi. «Ho disimparato tutto: a parlare, camminare, suonare. E ho dovuto ricominciare tutto da capo. Come se fossi rinato - dice - È stato in quella 12a stanza, però, che sono cominciate a sbocciate cose nuove: ho inciso per la prima volta un disco tutto mio e, sempre per la prima volta, ho accettato l’idea di andare in tour da solo».

“The 12th Room” è doppio cd che raccoglie nella prima parte dodici brani - uno edito, quattro inediti e sette di repertorio pianistico - mentre nella seconda un’unica Sonata (in sol minore) di circa 45 minuti. Lo spettacolo del Del Verme ha la stessa impostazione. Pur nella tragedia, il pianista un po’ di fortuna l’ha avuta; fosse stato aggredito da quel tipo di malattia solo negli anni Novanta ora lui e la sua musica sarebbero solo memoria. E invece oggi la medicina offre rimedi capaci non solo di mantenerlo, ma pure di fargli fare concerti, di sedurre platee; sempre un po’ più affannato e un po’ più stanco, ma ancora smanioso di progettare il futuro. Tutto, naturalmente, con qualche piccolo accorgimento; innanzitutto un pianoforte speciale, con tasti più leggeri di quelli tradizionali, per ridurre lo sforzo delle dita, e uno sgabello ergonomico concepito dall’architetto Simone Gheduzzi apposta per le sue necessità. Bosso vive a Londra ma il suo gran coda Steinway risiede a Torino, a Palazzo Barolo, dove lui, oltre a studiare, insegna.

«In scena metto da parte i formalismi per cercare la fragilità, l’amore, il coraggio» assicura, ricordando come la passione per la musica gli sia esplosa all’età di 4 anni, coltivata da una prozia insegnante di pianoforte che lo costringeva ad interminabili sedute di solfeggio. Precoce in tutto, il musicista piemontese ha iniziato a comporre a 12 anni e, dopo una parentesi nel gruppo ska degli Statuto, è volato a Vienna per frequentare l’accademia. Il suo grande mentore è stato, infatti, il contrabbassista tedesco Ludwig Streicher, riuscito nell’impresa di tirar fuori il musicista dall’ “animale selvatico” che si portava addosso.