
Francesco Motta
Milano, 1 maggio 2018 - «Non sento assolutamente l’esigenza di fare il musicista, né di fare dischi, ma solo di dire delle cose», premette Francesco Motta, ospite ieri pomeriggio nella redazione de “Il Giorno” per parlare dell’ultimo album “Vivere o morire” e del tour che il 31 maggio lo riporta all’Alcatraz. «Siccome sono musicista, lo faccio attraverso le canzoni, ma la molla che mi spinge sul palco è il bisogno di raccontare. In un brano come “Mi parli di te”, ad esempio, rivelo ai miei cose che finora non ero riuscito a dire neppure la sera a cena. A 18 anni Lou Reed veniva prima dei miei genitori, mentre ora sono loro la cosa più importante». Il desiderio di “togliersi i vestiti” davanti a quello che nel frattempo è diventato, spinge il cantautore toscano, 31 anni (legato all’attrice Carolina Crescentini), a cambiare il suo sguardo sul mondo. «Sono molto più contento adesso di quando avevo vent’anni» giura. «Grazie al cielo, invecchio anch’io».
Cos’è cambiato?
«È stato come se nel mio primo album “La fine dei vent’anni” avessi descritto il bivio che avevo davanti. Nella confusione di non sapere che direzione prendere. Con “Vivere o morire” invece, ho imboccato una strada: scegliendo di vivere. Quindi mi sento più felice, più in movimento, perché queste scelte hanno portato ad una leggerezza che prima non avevo. Ho scoperto che le cose migliori mi vengono la mattina, quasi un paradosso per uno abituato a vivere di notte come me».
Al suo fianco non c’è più Riccardo Sinigallia.
«Intuendo, probabilmente, che avrei potuto farcela anche da solo, Sinigallia accettò di produrre il primo disco premettendo, però, che non ci sarebbe stato nel secondo; così per i suoni mi sono rivolto a Taketo Gohara e per i testi a Pacifico».
Ma Pacifico, più che lavorare sulle canzoni, ha lavorato su di lei.
«I nostri incontri sono stati quasi delle sedute analitiche. Sono andato a Parigi, dove vive lui, per raccontargli tutta la mia vita, scavando nel privato come non m’era mai capitato di fare prima. Per la scrittura di ogni pezzo, infatti, Pacifico mi chiedeva di trovare un gancio emotivo della mia vita privata da cui partire. Queste chiacchierate si sono così trasformate in un processo maieutico in cui ero io a fissare pensieri e parole sulla carta, con lui che poi condivideva ogni passaggio. Una vera co-scrittura».
Nella stessa “Vivere o morie” descrive la sua Livorno come “ una città strana piena di gambe nude e personalissime posture”.
«Ora che abito a Roma e vedo la vita da un’altra angolazione rispetto a quando stavo a Livorno, penso che l’aver cominciato in provincia abbia i suoi aspetti positivi. Ora che ho una mia stabilità quel famoso “parcheggio” che cercavo nel disco precedente, l’ho trovato. E sono felice di averlo fatto in una città tremendamente malata, ma pure incredibilmente bella, come Roma».
Parliamo di riferimenti.
«La mia aspirazione più grossa? Incontrare Francesco De Gregori. Con Bennato e Dalla è il cantautore che ho ascoltato e amato di più. Ma ho ascoltato di tutto. Ho provato a fare una cover acustica di “Johanna” di Lady Gaga».
A lei che il cinema ce l’ha in casa, le piacerebbe scrivere la colonna sonora di un film?
«Sette anni fa ho fatto un corso di colonne sonore presso il Centro Sperimentale di Roma ed è stata un’esperienza molto utile».
Un regista con cui lavorare?
«Odio l’esterofilia, quindi dico: Matteo Garrone!».