STEFANIA CONSENTI
Cultura e Spettacoli

Il Giambellino nel Dopoguerra: "Quel miracolo economico fatto di tante piccole...Storie"

Paolo Colombo insegna Storia contemporanea e ha scritto il romanzo “Un sogno così“. Nella parabola della sua famiglia una traccia della vicenda collettiva del nostro Paese.

Paolo Colombo insegna Storia contemporanea e ha scritto il romanzo “Un sogno così“. Nella parabola della sua famiglia una traccia della vicenda collettiva del nostro Paese.

Paolo Colombo insegna Storia contemporanea e ha scritto il romanzo “Un sogno così“. Nella parabola della sua famiglia una traccia della vicenda collettiva del nostro Paese.

Una storia familiare, quella di Carlo e Liliana, che si intreccia con la Storia collettiva del Paese, tra il fermento della rinascita e le cicatrici della guerra, e tumultuose trasformazioni, con le tv che entrano nelle case e il primo supermercato a Milano concepito da Bernardo Caprotti, e le auto che corrono su strade costruite a tempo di record e palazzi che spuntano come funghi, alcuni di stampo "brutalista" come la Torre Velasca, tirata su in meno di due anni da architetti visionari.

Milano, 1952, Giambellino. La campagna lascia spazio a nuove, urgenti, costruzioni per accogliere lavoratori dall’estero, gente da rimpatriare da Francia e Algeria, immigrati, pugliesi, siciliani, i "terùn" in milanese, ma anche veneti, e poi polacchi, rumeni e poi...

Paolo Colombo, docente di Storia Contemporanea e delle istituzioni politiche alla Cattolica, nella parabola privata della sua famigla "racconta ciò che siamo stati" e, forse, quello che ancora possiamo essere, a patto di riconoscere i segnali della Storia, nel romanzo “Un sogno così“ (Feltrinelli). "Carlo e Liliana sono i miei genitori – svela Colombo –. Mio papà arriva al Giambellino poco più che ventenne, ha la forza dell’amore, e della vita, aprirà un negozio in via Giambellino 142, pochi metri quadrati, dove insieme a chiodi, bulloni, mette insieme, pezzo per pezzo, la sua esistenza, il suo piccolo miracolo economico con un’etica del lavoro che si traduce nel mettersi a servizio della comunità. Perché, pensava, solo lavorando bene poteva migliorare il Giambellino".

Perché questo libro? "Le piccole storie non sono meno importanti delle grandi e ci tenevo a ribaltare uno stereotipo che vede noi italiani come “popolo della commedia“ mentre altri riescono a rendere mitici anche pezzettini della loro storia, fondandoci valori. Il Giambellino nasce per accogliere immigrati e ne resta segnato, come altri quartieri. Popolato di gente che fatica".

E anche di malavita, chiamata “ligèra“, con personaggi come Vallanzasca. Qualcosa cambia con la rapina di via Osoppo: il Giambellino finisce nel mirino. "All’improvviso l’aurea di romanticismo scompare, non più i poveri che rubano, sembra una rapina di gangster, clamorosa, con un mucchio di soldi. Nel libro sollevo temi che mi stanno a cuore, dall’appartenzenza al luogo fino a cos’è da considerarsi giusto, o sbagliato, a questo mondo".

Il negozio di ferramenta esiste ancora? "Certo! Quando mio padre decise di andare in pensione, a fine anni ’80, lo cedette a Sandrino, di cui tanto parlo nel romanzo. Resta un punto di riferimento".

Erano, nel dopoguerra, anni intensi, trasformazioni epocali... "Sì ma nulla era facile, scontato. Come oggi. Loro però cercavano di costruire. Noi, invece, siamo in un momento difficile - fra nuovi assetti di geopolitica, l’intelligenza artificiale e i proclami di Trump - ma siamo cupi. Siamo al centro della più grande rivoluzione della storia dell’umanità. Sono preoccupato, ma speranzoso. Da storico, dico che dovremmo spiegare l’eccezionalità del tempo in cui viviamo. Ci sono state infinite occasioni in cui siamo stati sull’orlo del baratro. Dal 1945 in poi il mondo ha una variante che lo può rendere inesistente da un momento all’altro: il nucleare. Lo scenario di questi momenti evoca gli anni ’30, ma non è detto che finisca allo stesso modo...".

Racconta con vibrante emozione l’11 maggio ’46: riapertura della Scala, con Toscanini. "Tutti volevano esserci, fu motivo di orgoglio per i milanesi di ogni ceto, in fila dal mattino per conquistarsi un posto". E c’era anche la gente del Giambellino.