
Francesca Scotti, per Bompiani ha scritto “Nessuno conosce Sayuki” (Jessica Pivetta)
Vittorio e Sayuki si separano, senza motivazione apparente, dopo sette anni di matrimonio. Le ripercussioni di questo evento non si limitano, però, ai confini della coppia, finendo per chiamare in causa, personalmente, tutti i membri della famiglia di lui. Soprattutto quando l’ex moglie fa pervenire loro un invito al ristorante. Ed è tra riflessioni sul presente e ricordi di un passato ora vicino ora lontano che si dipana “Nessuno conosce Sayuki”, il nuovo romanzo di Francesca Scotti, edito da Bompiani.
Lei vive tra Milano e il Giappone. Quanto questo Paese ha influenzato il suo lavoro e, in particolare, il suo ultimo libro?
"Vivo in Giappone ormai da tredici anni e, in parte, il mio trasferimento ha coinciso con l’inizio della mia parabola scrittoria. È come se avessi trovato, attraverso il lavoro di immaginazione e creazione, un modo per superare la maggiore difficoltà iniziale, ossia la barriera linguistica. Nello specifico, questo libro, che arriva quasi in un momento di “maturità giapponese”, porta con sé l’idea di un Paese che resta per me, sotto molti aspetti, inconoscibile. Mi sono resa conto che più sto in Giappone, meno mi sembra di conoscerlo. Così, il personaggio di Sayuki, accanto ad elementi più immediatamente individuabili e riconducibili alla cultura nipponica, personifica il mistero e l’alterità che avvolgono il suo luogo d’origine".
Premette al romanzo una frase di Clarice Lispector. Ha un legame particolare con questa autrice?
"Per me Lispector, “la Clarice” per gli amici, rappresenta una delle grandi maestre, oltre a essere una scrittrice che ho sempre amato. Ciò che mi piace di lei è che la sua prosa sembra far “accadere le cose”. Possiede un’efficacia che va oltre il semplice virtuosismo, veicola qualcosa di magico. In questo senso, incarna il concetto giapponese di “kotodama”, cioè un linguaggio in grado di agire sul reale. Quindi, direi che quella frase iniziale funge da sostegno, ma anche da dichiarazione di intenti".
Da principio, i membri della famiglia di Vittorio danno per scontato che a soffrire di più e a necessitare di aiuto, in seguito alla separazione, sia Sayuki. Nel corso del romanzo, invece, la situazione si capovolge e solo alla fine gli altri personaggi comprendono che il vuoto è prima di tutto il loro.
"È proprio quello che succede. Inizialmente, tutti pensano che l’invito a pranzo sia un pretesto di Sayuki per mettere in scena una qualche vendetta nei confronti dell’uomo che non ama più. Poi, però, cominciano a temere che la donna sia in difficoltà e che questa inaspettata convocazione non celi un atto rancoroso, quanto, piuttosto, una richiesta di aiuto. Infine, quando si ritrovano tutti attorno al tavolo del ristorante, si guardano dentro e comprendono che la difficoltà, il vuoto che sperimentano sono un riflesso del loro stesso stato d’animo".
I fiori compaiono spesso nel romanzo: vediamo Sayuki maneggiarli con grazia e sicurezza nel suo negozio. Si tratta di un altro riferimento alla cultura giapponese?
"In realtà, quella per i fiori è una passione che ho sempre avuto. Quando ero bambina, mia nonna abitava a Baggio, una zona che allora era ancora circondata da risaie e campi. Io adoravo giocare all’aperto e lei mi insegnava i nomi dei fiori. Da adulta, dopo essermi trasferita in Giappone, ho scoperto l’“hanakotoba”, un linguaggio, una simbologia floreale che affonda le radici in leggende e significati tradizionali. Sayuki, in particolare, unisce questo aspetto legato al folklore della sua terra con un’interpretazione, familiare e personale, dei fiori e degli elementi naturali".