Il giardino dei ciliegi (di Lidi) al Piccolo: "Il teatro è un’emozione infantile"

Il regista: "Checov è la mia risposta a un sistema sempre più legato ai grandi nomi di cinema e tv"

Il giardino dei ciliegi (di Lidi) al Piccolo: "Il teatro è un’emozione infantile"

Il regista: "Checov è la mia risposta a un sistema sempre più legato ai grandi nomi di cinema e tv"

E già si sentono in lontananza i rumori degli alberi abbattuti. Mentre i fratelli Gaiev e Ljuba hanno appena salutato la vecchia casa. La stanza dei giochi. E l’anziano Firs è rimasto solo. In poltrona. Aspettando la fine. C’è una tale abitudine a Il giardino dei ciliegi che a volte pare un racconto familiare. Che a tutti appartiene. A teatro si traduce in una sfida. Scivolosissima. A cui Leonardo Lidi arriva al termine di un percorso cechoviano triennale. Dopo Il gabbiano e Zio Vanja. Al suo fianco la stessa compagnia. Per un lavoro da martedì al Piccolo Teatro Strehler.

Lidi, cosa rimane di questi tre anni?

"La soddisfazione di un percorso politico oltre che artistico. Mettere al centro una compagnia di attori straordinari, ha significato condividere un’esperienza di vita in cui il teatro ritrova il suo lato più umano".

In che senso politico?

"Durante la pandemia l’attore è stato fra le professioni più dimenticate. Una ferita che mi ha spinto a iniziare il progetto, come risposta a un sistema sempre più legato ai grandi nomi del cinema e della tv. Il teatro è invece fatto di persone e della forza che emerge dalle loro vite".

Perché Cechov?

"È un autore che mette al centro l’attore. Come regista l’ho affrontato senza toccare una parola, nonostante io di solito lavori a gamba tesa. Ma la traduzione di Fausto Malcovati è troppo bella, come la cura metodica della scrittura cechoviana, che pare una piccola orchestra dal ritmo perfetto".

È anche un autore spesso incasellato nei cliché.

"Per non cadere nella trappola ho pensato a spettacoli molto diversi. Più classico Il gabbiano, immerso in un vaudeville anni ’60 lo Zio Vanja, coraggioso e psichedelico Il giardino. Mi sembrava l’unico modo per proteggerne la matrice rivoluzionaria, evitando l’oggetto museale. La chiave di lettura poi credo sia evidente".

Il giardino come metafora del teatro.

"Sì, dall’emozione infantile, ai pericoli che corre".

Quindi come sta oggi il teatro?

"Mi sembra un buon momento, anche se forse non ce lo diciamo abbastanza. Ci sono nomi forti alla regia, si osserva un concreto ricambio generazionale. È il sistema che mi pare miope, viene sottovalutato lo spettatore e non ci si interroga a sufficienza sulla propria identità, che andrebbe sottolineata con orgoglio".

Si sente erede di un certo teatro di regia?

"Sì e lo prendo come un complimento. L’importante è non definirmi emergente solo perché ho 37 anni: ho alle spalle tantissime produzioni e dirigo la Scuola Nazionale a Torino".

Ora cosa farà senza Cechov?

"Mi aspetta La gatta sul tetto che scotta, vedo una continuità in Tennessee Williams. Su Sky sarò invece in Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo".

Si diverte dall’altra parte?

"Sul palco ho smesso di recitare da cinque anni. È l’ultima isola d’attore che mi rimane. E mi piace molto. Specie quando vengo diretto da registi come i D’Innocenzo".

Diego Vincenti