Per ora se ne sta lì, comodo comodo. Al Vittoriale degli italiani. Ma ogni volta che si parla di un nuovo incarico culturale vicino al governo (dal ministero in giù), viene sempre fuori il suo nome: Giordano Bruno Guerri. Il più libertario degli intellettuali di destra. Certo fra i meno ideologici. Per ora le nomination non l’hanno premiato. E così prosegue nel suo lavoro di storico. Di queste settimane l’uscita per Rizzoli di “Benito. Storia di un italiano“, che presenterà venerdì 22 novembre, alle 18.30, nella libreria dell’editore, in Galleria. Una biografia. Che indaga il rapporto fra il duce e gli italiani. Sviluppando la tesi di un Paese all’epoca sedotto dal mussolinismo più che dal fascismo.
Guerri, dal titolo sembra che stia parlando di un parente.
"Non esattamente uno zio ma qualcuno di cui si raccontava in famiglia. Per tutti bastava Benito. La tesi è che fu il fascino dell’uomo a colpire gli italiani, non il pensiero politico".
Nessuna scelta ideologica?
"Quella si legava alla filosofia di Giovanni Gentile, che diceva come l’uomo nello Stato fosse tutto, mentre al di fuori non era nulla. Le sembra una visione che può appartenere a noi italiani?"
Domanda retorica.
"Appunto. Si figuri quando ci si descriveva come popolo guerriero, che per fortuna non siamo mai stati. O si rispolverava il culto della romanità. Aria fritta. Lo stesso Mussolini era mussoliniano più che fascista. Perché il consenso si legava alla sua figura, perfino alla sua fisicità. Il rimpianto di qualcuno oggi è infatti solo per l’uomo forte che risolve i problemi. Per questo smetterei di parlare di fascismo, per passare a neofascismo e neoantifascismo".
L’uomo forte rimane tentazione molto italiana.
"Non solo. Ma a noi appartiene. Lo si è visto anche dopo con De Gasperi, Togliatti, Craxi, Berlusconi".
Però così non si rischia di deresponsabilizzare il sistema?
"No, perché nessuno mette in discussione che si creò una dittatura oppressiva, che per vent’anni negò la libertà creando un gravissimo danno alla popolazione. Ma oggi non vedo quel pericolo in Italia. Al limite, come in altre parti del mondo, si può parlare di democrazia autoritaria, visto che si sta perdendo il contatto con il significato della parola democrazia. Il dato significativo, anche degli ultimi risultati elettorali, è l’astensionismo. Il popolo non esercita più il suo potere credendo che abbia perduto valore. E questa sfiducia è un dato gravissimo".
Chi sono oggi i neofascisti?
"Gruppetti di cui ogni tanto ci si trova costretti a parlare, come per CasaPound a Bologna. È un problema che si risolve con le leggi e con la polizia. Un foruncolo sulla fronte che curi, aspettando che passi. Mentre il neoantifascismo al momento è un manganello contro il governo, Meloni e le sue origini. Ma pensare che sia neofascista è da polli, è solo un governo conservatore".
Lei si definisce libertario.
"E da libertario ho al mio interno centinaia di “anti“, a partire dall’antifascismo. Preferisco però definirmi neoantifascista, non voglio indossare medaglie che spettano a chi in passato rischiava la vita, non un applauso".
Definizione che Meloni si guarda bene dallo sposare.
"Perché lei viene da una storia precisa. È nata in quell’ambiente, anche se quella fiamma le dà pure fastidio, è un problema. Secondo me arriverà a toglierla ma oggi creerebbe disappunto in alcuni del suo gruppo".
Lei si considera un intellettuale di destra?
"Sì, perché curo la libertà dell’individuo, per poi arrivare alle masse. Credo inoltre che la politica economica migliore sia quella liberale. A questo però si aggiunge un fraintendimento. Avendo fatto del fascismo un mio frequente oggetto di studi, qualcuno pensa che sia fascista. Un’assurdità. Continuo invece a indagare il tema perché credo sia un problema non ancora risolto".
Le sarebbe piaciuto diventare ministro della Cultura?
"La mia vita ne sarebbe uscita rovinata ma come avrei fatto a rifiutare una tale sfida? In ogni caso non mi è mai stato proposto, il governo è andato in un’altra direzione, componendo una squadra omogenea, senza disturbatori o tenori".
Come vede Giuli?
"Non ne voglio parlare, è un amico, una persona colta, fattiva, ha capacità per sviluppare il settore, farà bene. E comunque anch’io annuso i libri. È buonissimo quell’odore fresco di stampa".
Sembrava che dovesse andare al Maxxi.
"Solo una voce. Presentando il libro, mi sono ritrovato con davanti trenta persone perché si erano dimenticati di mandare gli inviti. Ho voluto infierire sulla responsabile della comunicazione, facendole presente che sarei presto stato il nuovo direttore. Poverina, lei è impallidita. Ho poi raccontato l’aneddoto a Roberto D’Agostino e si è creato il fraintendimento. Io sto benissimo al Vittoriale".
Nonostante i continui furti?
"Non dica così, sono stati due. Uno di un proiettore, in una zona isolata. Un altro compiuto da una banda organizzatissima interessata all’oro da fondere. Abbiamo incrementato la sorveglianza. In compenso i risultati sono ottimi. Stiamo per toccare i 300 mila visitatori, il doppio rispetto a quando sono arrivato. E credo che sia un risultato legato al lavoro svolto per cambiare l’immagine di D’annunzio. Non a caso oggi vedo tante scolaresche".