GRAZIA LISSI
Cultura e Spettacoli

Teatro alla Scala, lo scenografo Fantin: “Il mio nome della rosa è un labirinto, ispirato dalle miniature medievali”

Debutta l’opera tratta dal romanzo di Umberto Eco. Tra monaci con vestiti dai colori sgargianti, spazio con il ruolo di protagonista e antichi simboli

Debutta alla Scala l’opera plasmata dallo scenografo Fantin e tratta dal romanzo di Umberto Eco. Tra monaci con vestiti dai colori sgargianti, spazio con il ruolo di protagonista e antichi simboli.

Debutta alla Scala l’opera plasmata dallo scenografo Fantin e tratta dal romanzo di Umberto Eco. Tra monaci con vestiti dai colori sgargianti, spazio con il ruolo di protagonista e antichi simboli.

"È stato un viaggio, non posso definirlo in altro modo. Quando lavori a un’opera contemporanea non sai mai dove arriverai. Questo è una grande forza per tutti noi, per lo stesso teatro" spiega Paolo Fantin, scenografo di “Il nome della rosa” di Francesco Filidei, ispirato all’omonimo romanzo di Eco, libretto di Filidei e Busellato, che debutta questa sera al Teatro alla Scala, regia di Damiano Michieletto, sul podio Ingo Metzmacher. Nato a Castelfranco Veneto, Fantin collabora con alcuni registi, fra cui Michieletto, e teatri internazionali. Fra i riconoscimenti più prestigiosi ricevuti negli ultimi anni l’International Opera Award come miglior scenografo, nel 2022 è stato artista ospite alla Biennale di Venezia.

Fantin, come ha creato la scenografia dell’opera tratta dal bestseller del che ispirò nel 1986 il film di Jean-Jacques Annaud?

"Come fosse un’installazione contemporanea in un antico museo. Tutto agisce all’interno del luogo, non fuori; il labirinto è concettuale. In teatro c’è sempre la necessità di scarnificare il più possibile il testo".

Ha messo in scena il Medioevo fantastico di Baltrusaitis o quello cupo di Annaud?

"È un Medioevo che parla all’uomo d’oggi, noi guardiamo tutto ciò che accade nell’abbazia attraverso gli occhi di Adso da Melk; è un susseguirsi di vicende che incutono terrore, per il novizio sono i gironi dell’inferno. Le visioni che animano il testo non hanno nulla di umano, generano paura; e la paura permette un controllo totale di quel mondo lontano, un insieme di elementi affascinanti per tutti noi".

Quale soggetto l’ha maggiormente ispirata?

"Le miniature medioevali i cui colori sono vivacissimi, per questo in scena si aggirano monaci vestiti d’azzurro o arancione. Abbiamo creato un universo estetico legato alla simbologia delle miniature del Medioevo e, allo stesso tempo, astratto. Il labirinto diventa luce, è un’installazione scultorea trasparente composta da veli che si muovono. Ho pensato fosse interessante far muovere il labirinto come se i protagonisti ci si perdessero. Il labirinto è un personaggio fondamentale, questa è la mia idea della scenografia: lo spazio è sempre protagonista. Nel finale il labirinto si autodistrugge ma resta il disegno dell’ottagono".

Come si sviluppa la storia?

"È divisa in giornate, sono atti estetici; ho voluto seguire, anche a livello scenico, gli atti come fossero quadri. In ognuno entra un oggetto legato a un personaggio, sono le visioni dei protagonisti. Ho costruito l’immagine della Madonna tridimensionale, man mano si avvicina ad Adso diventa sempre più grande fino a far percepire ad Adso di essere piccolo come Gesù Bambino. Anche la scena della tortura è ambientata in una teca piena di scorpioni, un’altra visione, un’altra installazione".

Ha studiato/visitato abbazie italiane o francesi?

"In Italia sono partito dalla forma dell’ottagono perché è la forma delle abbazie medioevali. Sull’ottagono ho costruito il labirinto sospeso; abbiamo sistemato il coro in una cantoria i cui cantori diventeranno la giuria di Guglielmo da Baskerville. I muri del labirinto sono di vetro, lo spettatore vede cosa accade all’interno. I personaggi sono persi nello spazio, entrano, escono da porte in un viaggio perenne".