Il “Pasticciaccio brutto di via Filodrammatici”, per dirla alla Gadda, al varo della nuova Tetralogia wagneriana con l’Oro del Reno ha ottenuto lo sconquasso che probabilmente qualcuno sperava: il più brutto spettacolo della stagione.
Riassumo. Direttore designato era Christian Thielemann, che s’è defilato con una scusa risibile e un insulto gratuito (la Scala, a suo dire, verserebbe in uno "stato di grave incertezza": che poi significa un normalissimo cambio di gestione secondo legge, la quale fissa un limite d’età; legge discutibile, però “dura lex sed lex”), che sia o no farina del suo sacco, sapere non è dato ma sospettare è possibile. Sembrava soluzione interessante - anche perché da anni Thielemann è diventato un banale routinier -, quella di un Rheingold a quattro mani (la consolidata professionista Simone Young e il giovane e lanciatissimo Alexander Soddy, tre recite ciascuno), da replicare lungo l’intera Tetralogia. E invece un disastro. Che quest’orchestra ridotta a pappa informe, pesante, morchiosa, grigia grigia grigia, sia la stessa che negli stessi giorni s’è aureolata di gloria suonando il Cavaliere della Rosa, ha dell’incredibile, dimostrazione palmare di quanto la bacchetta faccia la differenza: un paragone tra Petrenko e Young equivarrebbe a quello tra il migliore champagne e una Coca Cola calda. E Gesù che spettacolo orripilante!
Ho sempre stimato molto David McVicar, sicché più amara è la delusione. Ridurre Wagner a Walt Disney potrebbe starci alla Scala, teatro notoriamente refrattario a spettacoli che facciano pensare, figuriamoci provarsi a tirar via la foglia di fico del mito e mostrare - i modi sono tanti, ove si faccia una regia vera - cosa c’è sotto, ovvero l’analisi critica che Wagner fa della borghesia capitalistica ottocentesca: ma se si decide di tenerle, tali foglie, allora le si devono piazzare su statue belle da vedere, non questa orrorosa Baggina di arteriosclerotici che deambulano zoppicando chiusi in gonne con guardinfante e frange, oppure in calzamaglie gonfiate tipo omino Michelin con deretani enormi, in una scenografia rinunciataria alla Wagner che costumava in provincia sessant’anni fa. E far recitare, magari: non limitarsi a farli entrare, stare ma soprattutto cadere. Nel cast, un ottimo Alberich (Ólafur Sigurdarson), un buon Fasolt (Jongming Park), un bravo Donner (André Schuen, però canta pochissimo), modesti gli altri; e un Michael Volle che come Wotan è non alla frutta ma al digestivo: e pare farà anche il Wotan della Walchiria, parte molto più lunga e pesante, non oso pensare.