
Giorgio Pasotti, attore e regista, 51 anni
Milano – Era a un passo dal diventare medico. Con probabile entusiasmo di genitori e familiari. Poi è inciampato nella recitazione. Proprio all’ultimo. E il cinema ha vinto sullo stetoscopio. Non é pero andata male a Giorgio Pasotti, fra gli attori più amati di quella nidiata arrivata al successo intorno al nuovo millennio. E da allora sempre protagonista fra cinema, tv, teatro. Ed è proprio sul palco che lo si incrocia, venerdì e sabato 7 e 8 marzo ospite dell’Oscar di via Lattanzio con “Io, Shakespeare e Pirandello“ di Davide Cavuti. Mosaico drammaturgico. Dal Bardo al Novecento. Dentro e fuori i personaggi, le atmosfere, i monologhi.
Pasotti, come mai questo potpourri teatrale?
"È uno spettacolo nato dopo il Covid, volevo riavvicinare soprattutto i ragazzi ai grandi autori, intervallando le loro parole con un po’ di fatti miei e di riflessioni sull’attualità. Credo che il suo segreto sia una leggerezza tutt’altro che superficiale".
È andato piuttosto bene.
"Trecentocinquanta repliche. Spostarlo anche di sera è venuto naturale".
Pezzo preferito?
"Mi emoziona sempre una parentesi che dedico alla Commedia dell’Arte, così legata alla nostra cultura e così dimenticata".
Come arriva alla recitazione?
"Per caso. Sono l’esempio perfetto di quello che diceva John Lennon: “La vita è ciò che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti“. E io fino a 24 anni volevo fare il medico. Ero partito per proseguire gli studi a Pechino, la Cina era ancora parecchio comunista e io ero lì per approfondire le conoscenze orientali, volendo applicarle allo sport, altra grande passione".
Talmente appassionato che si ritrova a menar le mani davanti alla cinepresa.
"Ma sì, un film di arti marziali. Pensavo fosse un’esperienza chiusa; arrivarono il secondo, il terzo, il quarto. Poco male. Rientrato in Italia tornai agli studi. Solo che Daniele Luchetti aveva sentito parlare di questo ragazzo italiano che faceva film in Cina e ne era rimasto incuriosito".
E così la chiama per “I piccoli maestri“.
"Dal romanzo di Meneghello, opera per me fondamentale. Che all’epoca accettai pure per fare i conti con una pagina della mia storia familiare: il fratello maggiore di mio padre venne fucilato dai nazi-fascisti. Tornare alla Resistenza, ai giovani partigiani significava tornare alla nostra storia. E tutto fu di tale forza che abbandonai il progetto di diventare medico".
Se ne è mai pentito?
"Pentito no. Ma nei momenti di sconforto ti domandi chi te l’ha fatto fare di intraprendere questo circo in cui vivi sulle montagne russe e dove i risultati non si legano al merito, come invece succede nello sport. Non basta che ti applichi. È un insieme di fattori, cosa che già in sé non mi appartiene come mentalità. Ma a me è andata di lusso".
Un momento di sconforto?
"È un qualcosa che vivi quando le tue idee non vengono condivise. Non facile da accettare se scegli sulla base dell’innamoramento. Ma non sempre gli spettatori ti premiano. A volte non funziona, altre arrivi troppo presto. Pazienza. C’è da dire che tutta la mia carriera è caratterizzata da questo approccio totalmente libero".
Incontri importanti?
"Luchetti, senza dubbio. E poi Muccino, Monicelli, Sorrentino. Sono molto legato all’esperienza con Distretto di Polizia".
Ultimamente però la si vede un po’ meno al cinema.
"È stato un caso, usciranno presto diversi titoli. E poi c’è l’impegno come direttore artistico dello Stabile d’Abruzzo, mi sono concentrato sul teatro e le attività di programmazione e promozione. Con ottimi risultati. Ho accettato un secondo mandato".
Quando torna come regista?
"Presto. Sto lavorando al mio terzo film, “Sotto a chi tocca“, spaccato sul mondo del lavoro da un testo di Jordi Galceran. Prima sarò protagonista di un progetto per RaiUno che aprirà le Olimpiadi Invernali. Il racconto del bobbista Eugenio Monti".
Il Rosso Volante di Gianni Brera.
"Talento enorme, a cui mancava l’oro olimpico. Nel 1964 a Innsbruck sembrava cosa fatta, visto che gli acerrimi rivali inglesi avevano rotto un bullone e non avevano il pezzo per sostituirlo. Monti però ne prende uno della spedizione azzurra e lo regala ai britannici, che arrivano primi. Si rifarà l’edizione successiva, vincendo a quarant’anni".
Le piacciono questi ruoli.
"Mi piace quando la forza di un personaggio trascende l’opera e spinge all’emozione e al pensiero. Obiettivo che sottolineava sempre Ermanno Olmi. Quello che facciamo deve accendere lampadine".
E lei ci riesce?
"Diciamo che ci provo. È sempre un po’ quella la vera sfida".