Milano gli ha insegnato la solidità del "fare impresa" a cui Marco Filiberti risponde con la sua originale poetica artistica. Drammaturgo, regista per il teatro e il cinema, attore, saggista e narratore, dopo il successo per lo spettacolo teatrale “Cahiers d’Écriture I e II“, presentato a Montalcino, Filiberti si rifugia nella sua città natale. Il 17 gennaio a Firenze, s’inaugura la mostra a lui dedicata “La Sapienza rende Liberi“ incentrata sul suo film "Parsifal" con masterclass aperte al pubblico e proiezioni dei suoi film.
Marco Filiberti cos’ha lasciato a Milano? "La giovinezza. La mia più intensa stagione milanese è stata ricca su un piano formativo, densa di innamoramenti, suggestioni oggi inimmaginabili. Ho cominciato tutto presto, anche la frequentazione con la Scala e il Piccolo, luoghi "culto" della mia milanesità, con Grassi, Strehler, Abbado, Ronconi. Sono cresciuto in un mondo che percepiva il fatto artistico e culturale come elemento costitutivo di una antropologia sociale. Ricordo i tram dove gli operai dell’Alfa Romeo parlavano del Simon Boccanegra ascoltato in loggione o in tv. La distanza con l’attualità culturale è siderale e, a Milano tutto si avverte in modo estremizzato".
E cosa vorrebbe ritrovare? "La capitale morale, quel mondo che risale ai Verri, ai Beccaria, a Claretta Maffei con il quale, ingenuamente, identificavo la mia città. Vorrei ritrovare quel cuore lombardo, brusco e schietto, sincero, invece di tanta affettazione manierata. Se in certi quartieri ravviso ancora un’umanità che potrebbe farcela a scavallare l’insidia del post-umano, il centro è compromesso, un centro commerciale a cielo aperto".
Appartiene a una dinastia d’imprenditori. "La mia vocazione artistica è stata precoce. Già a sei anni sapevo cosa sarei stato, non in quali termini, ma che avrei dedicato la vita all’arte. I miei genitori non mi hanno ostacolato, di questo sono loro grato. A otto anni mio padre mi portò a visitare le Fonderie Filiberti e mi chiese se ero disposto a rinunciarci. Ovviamente risposi: rinuncio! Mio padre mi disse dunque di fare al meglio qualunque cosa avessi scelto. Non gli ho disobbedito".
Cosa le ha insegnato la sua famiglia? "Molte cose che ho trattenuto, altre che ho respinto. Non mi identifico, e non identifico gli altri, con le circostanze biografiche, ma con l’angolazione spirituale con la quale le attraversiamo. Dai miei genitori ho appreso la deontologia del dovere e un’insofferenza per chi si culla nel vizio di una nascita privilegiata. Papà è morto giovane, la mamma, che veneravo, è stata la persona più importante, pur avendo avuto con lei scontri epocali. Nella mia famiglia sono accaduti fatti forti, era come stare sulle montagne russe. Non c’è stata armonia e stabilità, ma ognuno fa quello che può e i genitori, prima di tutto, sono esseri umani. Da tempo li amo senza giudizi, e di loro mi rimane la forza vitale che si respirava in casa, il senso dell’umorismo, gli slanci e i furori, i valori cristiani di nonno".
È regista, drammaturgo, scrittore. "Ciò che faccio, declinato in diverse espressioni, è un’unica, coesa visione. La forma che va ad assumere varia, ma l’istanza che la genera è unica. Le mie creazioni compongono un unico arazzo, teso a scorgere una linea escatologica nel mistero dell’esistenza. Non mi interessano i fatti in quanto tali, ma in quanto figure di altro, di una realtà che si può cogliere solo quando si è lasciato andare tutto, ogni identificazione, ogni paura. In ogni caso, la scrittura, pura o mediata che sia, è sempre all’origine di ogni mia creazione, anche quando la prima cellula è di tipo visivo, sonoro o altro. Mi cimenterò anche con la regia lirica, in quel caso c’è una partitura".
Racconterà mai Milano? "Il film che sto cercando di costruire produttivamente è ambientato nella mia città, sul Lago di Como e a Parigi, tra il 1973 e il 1989. L’ho scritto pensando a quella Milano che mi parla, tra i suoi teatri, Brera, l’Università degli Studi, San Marco e Santa Maria delle Grazie, il Resentin, il Giardino, ma anche con le forti tensioni sociali di quegli anni, un clima politico difficile, oscuro, vissuto quasi con un taglio metafisico, nel quale si dipana la storia di tre giovani. Scrivendola ho cercato i sapori di quella stagione, quando ti affacci alla vita, quando la passione per una persona, uno spettacolo erano tutt’uno. E questo, per me, è avvenuto a Milano".