DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Ugo Dighero, l’Avaro di Molière al Manzoni: "Il mio Arpagone ci parla da vicino. E vive con sincerità anche l’amore"

In scena da stasera nei panni del protagonista, a giocare con le monete e con i cuori: "Un simbolo positivo circondato da consumisti che inseguono il possesso di oggetti privi di reale valore"

Ugo Dighero in scena da stasera nei panni del protagonista, a giocare con le monete e con i cuori "Un simbolo positivo circondato da consumisti che inseguono il possesso di oggetti privi di reale valore".

Ugo Dighero in scena da stasera nei panni del protagonista, a giocare con le monete e con i cuori "Un simbolo positivo circondato da consumisti che inseguono il possesso di oggetti privi di reale valore".

Milano – Non ha bisogno di niente. E di nessuno. È come se avesse una Siberia al posto del cuore. Gli interessa solo il denaro. Quel suo patrimonio da proteggere. Perfino di fronte alla felicità dei figli. Ma è davvero così orrendo il vecchio Arpagone? Chissà. Meglio scoprirlo al Teatro Manzoni. Dove da stasera arriva "L’avaro" di Luigi Saravo, su nuovo adattamento molieriano di Letizia Russo. Lavoro corale (nel cast Mariangeles Torres). Con Ugo Dighero nei panni del protagonista. Lui a giocare con le monete e con i cuori. Dopo tanta tv. E i successi a teatro con Stefano Benni e Dario Fo.

Dighero, com’è il suo Arpagone?

"Ci parla da vicino. Chiaramente è un personaggio dal carattere impossibile, la cui avarizia rimane orribile. Eppure è anche un uomo che risparmia, che ricicla, che evita sprechi. Rappresenta quei valori che ci permetterebbero di sopravvivere se non scegliessimo ogni volta di andare in direzione opposta".

Quindi fa tutto il giro e diventa simbolo positivo?

"Esattamente. Non a caso è sempre lui che fa emergere il secondo grande tema di Molière: l’amore. Per assurdo è l’unico che vive un sentimento sincero, privo di qualsiasi interesse, nel momento in cui si innamora di una ragazza molto povera. Un paradosso. All’interno di un contesto in cui il più sano ha la rogna".

Tutto gira intorno al denaro.

"Come nel Medioevo succedeva con Dio. Solo che se oggi provi a togliere Dio non succede nulla. Mentre se escludi il denaro dalla nostra società, sembra crollare tutto. Arpagone è circondato da consumisti forsennati che inseguono il puro possesso di oggetti privi di reale valore. Il tutto però attraverso una scrittura ideale per muoversi fra commedia e tragedia".

Che poi è sempre stata un po’ la sua chiave.

"Sì, spesso chi nasce nella comicità mostra un certo valore nel drammatico. Sei abituato a esporti senza rete col pubblico, perché se la platea non ride la catastrofe la vivi immediatamente sulla tua pelle, mentre se sei un cane ma stai facendo qualcosa di drammatico, la risposta degli spettatori potresti non averla mai. Tutto questo ti spinge ad approfondire i personaggi, le loro sfumature. Anche quando si parla solo di maschere o di macchiette".

Ma lei quando decise che voleva fare l’attore?

"Frequentavo già da ragazzino i teatri parrocchiali ma dopo il liceo mi ero iscritto a Economia e Commercio, per dire quanto fossi distante da certi orizzonti. Alcuni amici stavano però studiando in accademia e così per caso mi ritrovai a seguire un’intera giornata di prove de "La donna serpente", nuova produzione dello Stabile di Genova che univa allievi e attori professionisti, accolti dalle incredibili scenografie di Luzzati".

Spettacolo indimenticabile.

"E infatti per me fu un’epifania. Uscii da lì che non volevo fare altro".

All’epoca Genova viveva un periodo molto vivace dal punto di vista culturale.

"Non ci posso pensare. Perché mi pare evidente come ora siamo invece immersi in una decadenza assoluta, dove la cultura è svilita in quanto fastidiosa al potere. Pericolosa. Io continuo a fare il mio con entusiasmo, sapendo il valore insito del fare teatro, di guardarlo, di scriverne. Solo che a differenza del passato, ho chiara la percezione che serva a molto poco".

C’è qualcosa che farebbe diversamente?

"Diciamo che ho preso coscienza di un fatto, di cui però non mi pento. Le spiego. Fino a quarant’anni ho avuto la convinzione che in questo mestiere l’aspetto più importante fosse la bravura. L’impegno. In realtà è solo una piccola parte di un contesto in cui sono altrettanto centrali le pubbliche relazioni e la capacità di muoversi nell’ambiente".

Tuttavia non avrebbe voluto muoversi meglio.

"No appunto, perché questa illusione mi ha protetto, forse salvato. È stato meglio seguire la propria natura che farsi venire il sangue marcio".