
Gabriele Lavia in. scena
Questa volta la sfida è impegnativa: avventurarsi in quell’inferno che sono i Tyrone. Famiglia che oggi verrebbe definita disfunzionale: lui è un attore in declino, lei dipende dagli oppiacei, mentre i figlioli cercano di sopravvivere ai loro demoni. Un groviglio di colpe e di risentimenti e di amore il “Lungo viaggio verso la notte“ di Eugene O’Neill, scelto da Gabriele Lavia come sua nuova indagine sull’uomo e sul palcoscenico, da stasera al 30 marzo al Piccolo Teatro Strehler.
Lavia, come mai O’Neill?
"Perché nelle scelte sono fedele a Eraclito, filosofo degli opposti. E quindi chiudo gli occhi per vedere. E decidere".
La sento particolarmente ermetico.
"Ma è così che faccio! Vado nel mio studio, con le pareti piene di libri. Chiudo gli occhi e giro su me stesso, toccando i dorsi di tutte quelle opere che mi circondano. D’altronde scrivo sempre sulla prima pagina dei miei quaderni “...come un cumulo di cose gettate a caso, la più bella cosa ordinata“, frammento di Eraclito che ci ricorda come le cose arriveranno da sé".
D’accordo, ma se si ferma su un libro che non le piace?
"Non tengo libri brutti. Al limite posso capitare su un testo che richiede 80 personaggi. E allora mi sento in diritto di tornare a girare. Ma questa volta è andata bene. Era già qualche anno che desideravo fare O’Neill. Il "Lungo viaggio" è anche più semplice di altre opere da portare in scena, mi posso concentrare su un interno. Sul palco ho un rigore geometrico, anche se qui è più misterioso, oscuro".
Ha la mania dell’ordine?
"Solo sul lavoro, per il resto sono disordinatissimo. Ma mi raccomando: non è questione di schemi. La geometria libera, lo schema comprime. Come nell’amore. Se no sarebbe solo questione di posizionare cateti e ipotenusa. E invece Eros come il teatro si muove nell’autenticità, il rifare non è garanzia di riuscita. Non a caso il dio fanciullo aveva tutti gli altri in pugno. Mi segue?".
La metafora mi pare abbastanza chiara. Eppure il teatro rovina, ne sa qualcosa James Tyrone.
"E lui a sua volta ha rovinato la famiglia. Un grande rovinatore, suo malgrado. La battuta più bella la rivolge alla moglie: "Tuo padre, beato lui, non faceva il teatro". Tutte le colpe e le ragioni provengono da lì, da quel luogo che ancora una volta è pronto a frequentare con l’inizio della nuova tournée".
Un uomo che continua a fare lo stesso ruolo da tutta la vita.
"Ha accettato di interpretare una parte romantica, commerciale, destinata al pubblico più semplice. Ed è stato un trionfo per tutta l’America, mica in Lombardia e Piemonte. Un successo però rovinoso, perché da quel momento non è più stato il grande attore shakespeariano che avrebbe potuto essere. E a cui ogni tanto torna, citando i grandi drammi nella vita quotidiana. Gli faccio ad esempio dire il Macbeth mentre svita una lampadina, spero che Eugene non se la prenda a male".
E per lei cos’è il teatro dopo tanti anni?
"Guardi, io non ci ho capito niente, mi spiace. Ho imparato solo a fare un controluce, a piazzare qualche taglio. Ho imparato i trucchi. Per il resto mi rimane troppo difficile".