
Dario Crapanzano
Milano, 30 dicembre 2018 - Fortunato, il commissario capo Mario Arrigoni. Per qualche giorno, nella pausa che gli concede il lavoro al commissariato di Porta Venezia, invece di doversi accontentare dei pur saporiti “sanguis” di Gino gusterà risotto ai funghi porcini - già, è stagione, siamo nell’autunno del ‘53 -, ossobuco, polenta arricchita da belle fette di formaggio. Qualche bicchiere di una bonarda vivace anzichenò. E, per finire, un grappino. O magari un sidro. No, non è in vacanza, Arrigoni. È in missione. Appena nominato capo di una “task force” che dovrà indagare sui delitti che accadessero in piccoli paesi della Lombardia, viene incaricato di trovare l’assassino di un ricco cinquantenne ras di una zona delle colline del Varesotto a picco sul Lago Maggiore, la “sponda magra”: impresario edile, ma soprattutto referente di una rete di contrabbandieri, forse anche strozzino. E marito di una bella giovanissima ragazza. S’intitola “Arrigoni e l’omicidio nel bosco” la settima indagine, appena pubblicata da Sem, del commissario Arrigoni, il personaggio creato da Dario Crapanzano, giallista apprezzato dal pubblico e dalla critica grazie alle sue trame sapientemente lineari e a una scrittura elegante e garbata, che non si concede a violenze inutili o a svolte clamorose.
Dario, Arrigoni non ha mai lasciato la sua, e tua, Porta Venezia...
«Era tempo di cambiare, continuare senza mai modifiche finisce per essere difficile, anche rischioso. Meglio provate a inventare, a descrivere situazioni nuove».
L’inizio di una serie?
«Questo no, non credo. Una gita professionale fuoriporta».
Che ti ha portato ad Arbizzone Varesino. Mai sentito, questo paesino...
«Ci credo, non esiste. Mi piaceva quel nome così rotondo. La zona esiste, certo, e l’ho scelta perché la conosco bene. La frequento da anni».
Un altro Nord, nel 1953, diverso da quello attuale?
«Non tantissimo. Sì, lì non hanno vissuto i cambiamenti che ha visto Milano. Ma la gente di quelle montagne ha mantenuto una forma di chiusura, di diffidenza verso gli ‘stranieri’, è gente schiva, riservata, anche all’eccesso. Poi, si sa, nei paesi i pettegolezzi corrono...».
Il tuo Arrigoni piace anche perché non è tormentato come tanti poliziotti ultimo grido?
«Sì, lui è abbastanza sereno, ha una bella moglie, una figlia che crescendo, ora ha 14 anni, è diventata più simpatica. Sa accontentarsi, il bravissimo Arrigoni, anche di una bella tavolata».
Un giallo, un noir, un thriller alla milanese riporta subito all’eterno Scerbanenco. Ma io ti accosterei piuttosto a Simenon... La tua scrittura è riflessiva, mai frenetica.
«Se dovessi, anch’io mi accosterei a Simenon. Non tanto agli infiniti Maigret quanto ai tanti altri suoi romanzi: magari le soluzioni risultavano un po’ abborracciate, ma il punto di forza erano le descrizioni, gli ambienti, i personaggi».
Mai avuto la tentazione di sperimentare qualche innovazione?
«No, e penso che non l’avrò mai. Tirar fuori un giallo moderno? Dovrei ricorrere ad altri metodi, il Dna, il Luminol... No, mi piace seguire i ragionamenti deduttivi alla Sherlock Holmes».
Il tuo lettore tipo?
«Direi anziano ma sveglio. Anche se ho scoperto che mi seguono pure i giovani. Pur preferendo la mia ‘squillo’».
Già, la tua seconda linea di romanzi. Lei, quando riappare?
«Potrebbe essere la protagonista del mio prossimo libro».