
Marta Marangoni (metà dei Duperdu con Fabio Wolf) in “Nome di battaglia Lia“, scritto e diretto da Renato Sarti
Un classico. Di teatro civile. Un rito. Che si ripete ogni anno il 24 aprile, giorno dell’insurrezione di Niguarda. A ricordare la morte della partigiana Gina Galeotti Bianchi, uccisa dai nazisti in fuga. Era incinta di 8 mesi. Ne ripercorre la storia “Nome di battaglia Lia“, scritto e diretto da Renato Sarti per il suo Teatro della Cooperativa. Un lavoro interpretato dallo stesso direttore artistico insieme a Marta Marangoni e Alice Pavan. In programma domani alle 19.30 in via Majorana, angolo via D’Anzi. Dove verrà anche eretta una barricata per gli ottant’anni della Liberazione. Finito lo spettacolo, consueto corteo con la Banda degli Ottoni. Ma già stasera Lia sarà all’Auditorium di Radio Popolare.
Marta, da quanti anni fa Lia? "Ventiquattro. Fa impressione a pensarci".
Che ragazza era al debutto?
"Ero da poco tornata da Berlino dove mi ero laureata in Lettere, volevo fare la giornalista o la traduttrice. Avevo una piccola collaborazione con Rai 3 per una rassegna stampa internazionale. Quando è venuta fuori la possibilità di fare servizio civile al Cooperativa, ho provato a mandare la mia candidatura. È andata bene: mi hanno presa e non mi hanno più mollata".
Ma aveva già fatto teatro?
"Ero un’appassionata, con la tesi avevo indagato lo storico Kabarett in Friedrichstrasse. Sempre in Germania avevo studiato canto, mentre nei localini proponevo piccole cose di varieté. Inizialmente affiancai Renato come assistente alla drammaturgia, ascoltavamo le interviste dell’archivio Anpi, avevo un approccio molto accademico".
Quand’è che l’ha spedita sul palco?
"A furia di sentirmi leggere, un giorno mi disse di farlo io. Era il mio primo ruolo. A lui piaceva questa cosa che fossi del quartiere, già conosciuta per le mie iniziative sul territorio. E da allora mi sento chiamare “Lia“ per le strade di Niguarda. Riprenderlo ogni anno ha assunto poi i contorni del rito e dimostra come la cultura delle periferie non sia figlia di un dio minore".
Si rinnovano i volti in manifestazione?
"Sì, ogni anno. E anche lo spettacolo diventa occasione per ragionare di altri temi oltre la Resistenza: dall’inclusione sociale all’ecologismo. Che poi è la sensibilità della mia comagnia, i Duperdu. Un teatro di comunità, fatto dai nostri cittadini attori. Nei laboratori cerchiamo di sviluppare impegno civile e qualità artistica, come per altro mi ha insegnato Renato Sarti".
Una militanza?
"Uno sporcarsi le mani. Perché siamo tutti di sinistra, certo. Ma quando c’è poi da fare è sempre lui in prima fila. Con noi, il Cooperativa, Anpi, Abitare".
Come vanno i laboratori?
"Stiamo lavorando su Frankenstein, una cosa pazzesca perché ci permette un cortocircuito fra l’idea di mostro e il concetto di normalità. La grande fatica rimane trovare le economie. Poi a livello artistico è chiaro che mi piacerebbe fare più sperimentazione ma devo tenere in considerazione l’anima popolare del progetto. Non possiamo essere Phoebe Zeitgeist, anche se mi piacerebbe spostarmi più verso il simbolo, le immagini, la performatività".
È legata alla sua agorà?
"Tantissimo. Mi ha anche ridato un senso intorno al 2008, quando, conclusa l’avventura al Cooperativa, mi sentivo smarrita. Il teatro sociale mi ha permesso di tenere unite anime diverse e di spingere il territorio a confrontarsi con temi che andassero al di là della crisi di coppia. Mi emoziona poi osservare come continuino a capitare cose straordinarie".
Del tipo?
"I laboratori innescano il cambiamento. I cittadini cominciano ad andare insieme a teatro o in gita, si scambiano i piatti della tradizione, superano le proprie rigidità e quelle della comunità di riferimento. Per questo parlo di famiglia allargata. E si capisce allora che il percorso verso un senso è reciproco, e da anni mi coinvolge in prima persona".