Una piccola, bellissima pianta. Anomalia di sistema. In un mondo glaciale e digitalizzato, dove Tom e Mildred credono di avere fatto l’affare immobiliare della loro vita. Peccato per questo accidente. Che ostacola la rivendita e fa crollare l’investimento. Un simbolo. Dai risvolti tragicomici. Ma con le radici piantate nella realtà. Come la scrittura di Caterina Filograno, da domani al Teatro Fontana con "Oleandra". Un debutto assoluto in via Boltraffio. Prodotto da Elsinor dopo il successo de "L’ultimo animale". Dove l’autrice barese (ma anche regista, interprete) torna a raccontare la contemporaneità attraverso una parola imbizzarrita.
Qui avventurandosi nel metaverso insieme a Giulia Mazzarino, Francesca Osso e Isacco Venturini.
Caterina, nel giorno di Trump, il suo lavoro richiama orizzonti americani.
"Senza dubbio. Non a caso l’ho definito un "american based play", perché la vicenda poggia su un certo immaginario trumpiano, dove il mondo appartiene a chi vince e la ricchezza è un valore".
C’è però un forte simbolismo in questa pianta inestirpabile. "Protagonista silenziosa, è priva di parola se non nel finale. Viene calpestata, amata, idolatrata senza averne coscienza. Ci ricorda come di fronte al virtuale, sia necessario alimentare un dialogo con le nostre origini naturali". Un dialogo che diventa confronto fra realtà e finzione.
"Sì, come si vede anche in scena. Dove la realtà è una fetta di palco sempre più stretta, assediata da un metaverso che ha già influenzato arredi e materiali.
Come se il digitale avanzasse ovunque, compiendo una contaminazione. Ma i contorni sono quelli del sogno. E la recitazione stessa va in una direzione non naturalistica. Un doppio binario di finzione, all’interno di un allestimento dove si creano raffinati ambienti di luci, di colori, di suoni. Gli abiti sono invece stati messi a disposizione da un caro amico, lo stilista Giuseppe Di Morabito".
Come descriverebbe il lavoro? "Una commedia surreale, o così viene proposta, le categorie vanno strette. Diciamo che attraverso il pretesto della pianta di pixel, provo a raccontare la nostra società e un processo di consapevolezza.
Un po’ come succede in "Poor Things" di Lanthimos, dove Emma Stone si emancipa scoprendo il mondo e la sua cattiveria. Il filo della trama è semplice e c’è un vago sapore teen che esaspera la sensazione di trovarsi di fronte a un linguaggio frivolo, in cui interviene all’improvviso qualcosa di disturbante".
Ma niente di sentimentale. "Fosse mai! Mi viene da morire quando qualcuno cerca la lacrima. C’è un’atmosfera fredda, straniante, da teatro tedesco". Quali gli ostacoli di essere un’artista donna?
"La diffusa attenzione alle quote rosa offre alcune possibilità, almeno fino a quando non si parla davvero di potere. A parità di merito, è più facile che oggi scelgano me di un collega uomo. In maniera più trasversale, mi sembra che manchi ancora un po’ di carattere nel porsi, il patriarcato è stato assorbito per secoli e spinge verso modelli chiari, presenti nello spettacolo".
Fra cinque anni?
"Vorrei spaziare, uscire dall’Italia e dal teatro, nonostante lo consideri la mia casa. Sto finendo il mio primo romanzo e c’è una trattativa per portarlo subito al cinema. Ma mi piacerebbe anche dirigere uno spazio, pur temendo la possibilità di sentirmi meno libera come artista".