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Patrick De Bana porta alla Scala una nuova coreografia della “Carmen“
Quando incontri Patrick De Bana sei subito contagiata dalla sua empatia sincera, dalla sua gioiosa creatività. Coreografo, ballerino, attore, per il balletto della Scala, firma una nuova coreografia "Carmen" nell’ambito del trittico Kratz/ Preljocaj/De Bana (da domani fino al 12 marzo). Nato ad Amburgo da madre tedesca e padre nigeriano, De Bana ha studiato all’Hamburg Ballett diretto da Neumeier e Finney, nel 1987 è entrato al Bèjart Ballet Lausanne, di cui è stato primo ballerino. Con "Carmen" dell’eclettico artista va in scena di Philippe Kratz "Solitude Sometimes su musiche di Thom Yorke e Radiohead, di Angelin Preliocaj "Annonciation" ispirato all’Annunciazione a Maria. Questa sera anteprima benefica riservata alla Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald Italia.
Maestro De Bana, perché proprio Carmen?
"Amo portare in scena donne coraggiose, indipendenti. Carmen è un’imperatrice, domina la sua società, è una protofemminista. Mia madre è stata determinante nella mia vita, quando porto in scena una nuova figura femminile penso sempre a lei, alla sua forte personalità oserei dire rivoluzionaria. Oggi più che mai abbiamo bisogno di donne solide, capaci di scegliere".
Lavorare sulla figura di Carmen significa ereditare le rappresentazioni che a lei s’ispirano: letteratura, musica, balletto.
"La danza è l’arte del silenzio. Con la parola comunichi la tue sensazioni nella danza parla il corpo e lo spettatore è libero di sentire le proprie emozioni, di fare riflessioni. Carmen è un personaggio che dona mille emozioni, in lei c’è tutto: la luce e l’oscurità, la manipolazione, la passione. Tutto questo voglio far percepire al pubblico".
Sua madre è tedesca, suo padre nigeriano. Cosa ha significato, per lei, crescere in un meticciato culturale?
"E ho nonni polacchi e ungheresi...un mèlange che mi ha dato una forza immensa. Sono nato in Germania e cresciuto per alcuni anni in Africa. In Germania i miei coetanei non volevano giocare con me perché ero "negro", in Nigeria i bambini mi evitavano perché ero "bianco". Un giorno ho chiesto a mia madre: “Ma cosa mi hai fatto? Nessuno vuole essere mio amico“. Ero disperato. E lei mi ha risposto spiegandomi che il mio meticciato sarebbe stato la mia tempra, energia; mi ha consigliato di prendere sia le cose buone, sia i difetti da ogni cultura della mia famiglia. Occidente e Africa hanno generato in me una creatività tenace e viva".
Quanto le sue vicende personali entrano nella sua arte?
"Il mio lavoro è la mia vita. Se con le mie coreografie riesco a raccontare storie che arrivano dritte all’anima del pubblico mi sento appagato. Poter condividere la tua arte è un dono che viene dal Cielo e, nel mio caso, anche da mia madre".
Da artista internazionale e di successo cosa vorrebbe dire all’Africa?
"La porto nel cuore, voglio che sia fiera di me. Se sono così lo devo anche alla mia gente. Sono un messaggero di pace e amore fra l’Africa e l’Europa. Con il passare dl tempo sono diventato più saggio significa che la mia venuta al mondo ha un senso". Ha fatto anche l’attore.
"Si, ma silenzioso. Ho lavorato in due film dedicati alla danza del grande regista spagnolo Carlos Saura: "I beria" (2004) e "Fados" (2006). Amo l’avventura, le sfide artistiche. Non dobbiamo mai fermarci, ma sperimentare sempre cose nuove per conoscere meglio noi stessi. Sono stato fortunato perché ho incontrato persone che mi hanno spinto ad attraversare, conoscere nuovi mondi, la prima è stata mia madre, il secondo Maurice Bèjart. E il mio viaggio non è ancora finito. Ripeto spesso una frase di mia madre.“Nella vita ci s’incontra sempre due volte“. Non perdiamo mai nessuno, per questo continuo a cercare".