
Peter Cincotti è in città col nuovo album
17 dicembre 2016, Milano - Il video dell’ultimo singolo “Palermo” sembra uno spot del Martini, tutto bellezze in costume da bagno, drink on the rocks, alberghi di lusso e concerti a bordo piscina, ma si sa che Peter Cincotti è sempre stato un pianista molto “cool”. Un campione di quell’effortless style, come lo chiamano gli americani, quell’essere chic senza sforzi che ne ha fatto un’icona di stile tanto corteggiata dagli stilisti quanto apprezzata dagli amanti della musica che attendono il pianista newyorkese questa sera al Blue Note, accompagnato da Lex Sadler al basso e da Joseph Nero alla batteria, per un assaggio in anteprima del nuovo album “Long way from home”. Il locale di via Borsieri rappresenta probabilmente la cornice ideale per uno che s’è fatto le ossa suonando nei club di Manhattan dove una quindicina di anni fa lo scoprì il leggendario Phil Ramone. Le origini irpine (nel 1891 il bisnonno Federico emigrò a New York da quella Cervinara di cui oggi da un paio d’anni è cittadino onorario) hanno rafforzato nel tempo i suoi legami con l’Italia portandolo ad esibirsi con Bocelli al Teatro del Silenzio e con Simona Molinari a Sanremo o a firmare la colonna sonora dell’ultimo film di Silvio Muccino “Le leggi del desiderio”.
Visto che “Long way from home” uscirà in primavera, perché presentarlo già ora?
«Perché diversi di brani contenuti in questo disco sono figli delle mie esperienze italiane. Il singolo “Palermo” lo svela già dal titolo così come “Roman skies”, che ho scritto sul sedile posteriore di un taxi della Capitale. Pure “Sexy” o la stessa “Long way from home” hanno a che fare con l’Italia. Naturalmente si tratta solo di un primo assaggio.Tornerò per eseguire l’intero album».
Qual è la direzione che ha scelto questa volta?
«Credo che nelle nuove canzoni ci sia molto più Cincotti di quanto ce n’è in quelle del passato perché, oltre a suonare e a cantare, “Long way from home”mi vede impegnato per la prima volta pure nei panni di produttore. Nel caricarmi sulle spalle pure questo ruolo ho guardato al mio primo disco combinando certi elementi strutturali di allora con le esperienze maturate negli ultimi tre anni».
É stato difficile?
«Ora che ho a disposizione uno studio di registrazione tutto mio sulla Jersey Shore non ho più limiti. E debbo dire che è stato esaltante poter lavorare per tutta la notte senza le lamentele dei vicini come invece accadeva quando stavo a New York. Fra l’altro ho attraversato un periodo molto creativo, in cui ogni sogno che mi passava per la testa nel sonno aveva una sua melodia; così non dovevo far altro che svegliarmi e appuntare quelle note sulla carta».
Fra le sue tante esperienze di c’è pure quella fatta in “House of cards”, dove ha cantato con il presidente Kevin Spacey. Le piacerebbe ripetere la cosa con Donald Trump?
«Assolutamente sì. E se con il presidente televisivo Frank Underwood ho duettato “Birth of the blues”, con quello vero mi piacerebbe recuperare una celebre ballad di Burt Bacharach e Carole Bayer Seger portata al successo da Dionne Warwick: “That’s what friends are for’”. Ovvero “A questo servono gli amici”. Il pezzo ideale, no?».