Uno ha novant’anni compiuti. L’altro va per i settantotto. Sempre feroci i numeri. Eppure a teatro Umberto Orsini e Franco Branciaroli continuano ad essere “I ragazzi irresistibili“, leoni del palco qui ad interpretare due anziani colleghi che un tempo facevano il varietà insieme. E si devono ritrovare per uno sketch. Superando cicatrici e rancori. Ci riusciranno? Un classicone. Firmato Neil Simon. Con la regia di Massimo Popolizio a far emergere il respiro inquieto sotto le (tante) risate. Dal 5 al 17 novembre in scena al Manzoni, con anche Flavio Francucci, Chiara Stoppa, Eros Pascale ed Emanuela Saccardi.
L’anno scorso al Piccolo e ora al Manzoni: tutto fa pensare che vi stiate divertendo.
FB: "Molto. Se ci fossero una ventina di testi così avremmo risolto i problemi della vita. Credo poi sia la prima volta che è fatto con due veri attori e non due comici. Forse era una raccomandazione dello stesso Neil Simon, non so. Perché se ci si ferma alla comicità slitta via tutto il sottotesto della commedia".
UO: "Sì, stiamo bene insieme. E il fatto di non essere due caratteristi offre effettivamente uno spessore più realistico, vero, malinconico".
Cosa si nasconde dunque sotto la risata?
FB: "Si parla di due vecchi e quindi ogni decisione che prendi, alla nostra età, ha il sapore della metafora. È commovente osservare questo incontro a distanza di anni, il tentativo di riavviare un’amicizia. C’è una profondità che Broadway nasconde sempre molto bene, sapendo che uno spettacolo sulla morte non incasserebbe un dollaro. Quindi gli autori cercano di coprire lo spessore con la crema pasticcera, in questo caso la cinica comicità ebraica newyorkese".
UO: "È quell’umorismo yiddish, che traccia momenti di divertimento sottile. Mentre verso il finale si apre un respiro più autobiografico, come se ci si ricordasse di essere una vecchia coppia di teatranti. Perché dietro la maschera ci siamo noi due".
Il titolo fa però pensare al teatro commerciale.
FB: "E sarebbe un errore gravissimo. Proprio per evitarlo, abbiamo chiamato un regista vero come Popolizio. Perché il testo è sobrio e di classe, richiede una regia all’altezza. Lo spettacolo è di una completezza incredibile, mi fa pensare a Lolita di Ronconi".
Paragone impegnativo.
FB: "È per far capire il senso di solidità che si respira. E infatti la gente è felice, la vedi che ha passato una bella serata".
Che rapporto avete con l’età?
UO: "Non mi angoscia ma è lì. Mi accorgo di fare più fatica nelle tournée ma è questa la mia vita e il teatro è la mia gioia. Mentre giro, già penso alla prossima produzione. Vivo nella progettualità, non mi soffermo sul traguardo ma continuo a pedalare. Con la voglia di giocare sempre nel campo centrale di Wimbledon, altrimenti non mi interessa. Per questo mi circondo di numeri uno, come Franco e Popolizio".
Come sta il teatro?
FB: "Non benissimo. Non se ne comprende più bene la funzione. Viene spesso affrontato in maniera basica, volontaristica, amatoriale, senza legami con la storia t’ha preceduto. C’è gente che fa Ibsen svuotando la coppa della propria anima, come se interessasse a qualcuno".
UO: "Io lo vedo più o meno come al solito. Non ci sono mai stati più di una decina di buoni spettacoli a stagione. Oggi c’è molta più proposta, quindi si può notare maggiormente la differenza di livello, con attori che non sanno più usare la voce o che propongono lavori intimisti privi di interesse. L’importante è stare sempre in quei dieci titoli di valore".
Non ce l’avrete mica con i colleghi più giovani?
FB: "No, ma quando le ho citato Lolita, lei giustamente ha sussultato. Morto il grande leone, chi è arrivato? Non mi pare le ultime generazioni abbiano lasciato segni forti".
UO: "Stimo e lavoro con chi ha qualità, anche fra i giovani. Ma ogni tanto si percepisce la superbia di pensare di essere i primi ad avere l’idea di tagliare una tela".