DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Ritorno al Cinema Cielo: "Sono passati vent’anni ma la sua anima è intatta"

Danio Manfredini al Menotti con lo spettacolo che vinse il Premio Ubu nel 2004. Ambientato in una sala a luci rosse, ispirato a un romanzo di Jean Genet. "Racconta il tentativo di sopravvivere alla normalizzazione nella marginalità".

Cinema Cielo è ambientato in una sala a luci rosse milanese, ora chiusa

Cinema Cielo è ambientato in una sala a luci rosse milanese, ora chiusa

Una sala a luci rosse. Oggi chiusa. Quell’umanità varia. In cerca di sesso e vita e nuove disperazioni. Mentre pian piano emerge Nostra Signora dei Fiori. Sfuggente e caleidoscopica. In mezzo alle parole e ai sedili. Progetto chiave nel percorso di Danio Manfredini, “Cinema Cielo“ torna dopo vent’anni. Un evento. Di pura ricerca, rigore, bellezza. Merito del Teatro Menotti. Che ci costruisce intorno una rassegna: martedì “Divine“, reading dal romanzo di Genet con illustrazioni di Manfredini; mercoledì alle 19 incontro col pubblico; da giovedì 13 a domenica 16 marzo lo spettacolo, premio Ubu alla regìa nel 2004.

Danio, come si sente a tornare al Cinema Cielo? "È una partitura viva. Che si confronta con quello che è successo in questi vent’anni. Ma in qualche modo, i veri frequentatori del cinema continuano a frequentarlo. L’anima del lavoro è intatta. Quello che muta col tempo è la percezione".

Può descrivere quest’anima? "È il tentativo di sopravvivere in un contesto standardizzato, di costante normalizzazione, nel momento in cui si sceglie un’esistenza guidata da una dimensione più soggettiva. Che rifiuta canali tracciati, luoghi regolari, prediligendo spazi marginali, dove non è escluso il trascendente. Perché l’esperienza è immaginazione, non solo erotismo".

Il marginale è da sempre suo territorio di indagine. "Sì, ogni volta finisco per guardare da quelle parti. Un po’ perché da lì provengo. Un po’ perché mi interessa un contesto legato alla classe sociale proletaria. Sono vite non registrate, che sembrano impossibilitate a lasciare tracce. Eppure così importanti con le loro personali inquietudini, le domande, i dolori".

E lei Danio com’è cambiato in questi vent’anni? "La mia vita prosegue nel teatro, è un’onda che va e viene, pratica quotidiana anche se in scena ci vado poco. I teatri invece sono cambiati: aziende che agiscono per corrispondere alle esigenze del ministero. Come fa però l’arte a nascere su dettami esterni, di mercato? Io in questo rimango controverso".

Cosa intende? "Cerco di relazionarmi senza tradire le mie modalità. A volte ci riesco meglio, altre così così".

Le piacerebbe lavorare con stabilità in una grande struttura? "Presupporrebbe lo strangolamento. Perché la stessa struttura è strangolata: brevi periodi di studio, obblighi amministrativi, sacrifici artistici. Ora farò la nuova produzione con Sardegna Teatro. Avremo 40 giorni di prove. Va bene, ma solo perché è l’ultima tappa di un percorso molto più lungo, che ha alle spalle mesi di lavoro sul testo e altrettante giornate a nostre spese. Poi intercetti qualcuno che ha bisogno di produrre e allora provi a relazionarti, trovare un accordo sul finale: 40 giorni non sono nulla per la profondità".

E a livello artistico cosa vede? "A teatro spesso mi annoio. Ho l’impressione che manchi di linfa vitale. Ma non si tratta di intercettare lo spettatore con fuochi d’artificio o provocazioni. Sarebbe sufficiente che il teatro restasse nella sua funzione di attivatore delle coscienze. Per ragionare di quello che si vede, a partire da Cinema Cielo".

Le condizioni non aiutano. "È vero, si vive un tempo sacrificato. Troppo spesso però c’è anche la volontà di compiacere il pubblico, inseguendo una moda. Noi non possiamo lavorare sul consenso, il nostro orizzonte è quello del rischio".

Ma alla fine cos’è oggi, per lei, il teatro? "Un compagno di vita che mi permette di addentrarmi nelle esistenze degli altri. Un privilegio. Che si traduce in scena nel tentativo di restituire un momento presente filtrato dal mio passato. Un’emanazione schermata di luce".