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Cultura e Spettacoli

Un Falstaff senza voce fra troppe cianfrusaglie

Giudici Per definizione, i classici continuano a parlare a pubblici fattisi anche diversissimi nel tempo. Classici, però, di letteratura, cinema,...

Giudici

Per definizione, i classici continuano a parlare a pubblici fattisi anche diversissimi nel tempo. Classici, però, di letteratura, cinema, teatro: gli spettacoli, invece, quasi mai sono classici in tal senso. Giorgio Strehler mise in scena alla Scala il verdiano Falstaff 45 anni fa: lo hanno ricostruito di sana pianta (con varianti, la scena in casa Ford è molto diversa, e non in meglio), ma rivisto oggi ne dimostra 80. Sempre validissima perché giustissima l’idea di ambientarlo non a Windsor bensì nella pianura padana, tipo Sant’Agata dove Verdi lo compose; ma in tale splendido ambiente, tutte le cianciafruscole tipiche del Piccolo di Strehler riproposte oggi si son fatte muffa: saltelli, manine che svolazzano, girotondi di fanciulla per farla apparire poetica ed è invece solo scema, figure che il controluce rende nere (un’intera scena senza poter discernere i volti di chi canta!), i due servitori di Falstaff che zampettano a cavalcioni d’una scopa e non è poesia alla Harry Potter ma solo Baggina grulla, tra profluvi di caccole, cincischi, trash in versione chic e quindi ancor più fasullo e antico. Il cast, poi, recita male e vocalmente è disastroso. Ambrogio Maestri (nella foto) fa Falstaff con la lunga esperienza ma mai con la voce, che non ha proprio più risultando un patetico relitto del passato. Le quattro donne hanno vocette inconsistenti che svaporano facendo percepire una parola su quattro. Il giovane Fenton ha quarantasei anni ma vocalmente molti di più, e Luca Micheletti è più attore che cantante, con la sua linea vocale che appena sale si stimbra e “va indietro”. Ben bizzarro, insomma, un Falstaff in cui l’unico a bucare l’orchestra sia il veterano Antonino Siragusa, quel Cajus che di solito non si sente. Daniele Gatti ha diretto molte volte quest’opera, e sempre benissimo. Stavolta, sceglie un approccio strano: orchestra densa, scura, pochissimi colori e niente brio, le fulminee aperture melodiche rese mai rapinose come dovrebbero bensì indugianti a contemplare se stesse, nell’ambito di tempi così frenati da far progredire l’azione con fatica, pur costellandola di molti particolari bellissimi. Se insomma l’evitare di svilire questa sublime commedia in musica in opera buffa se non addirittura in farsaccia come fanno tanti, è da condividere entusiasticamente: il portarla dappresso a un requiem, mi pare farle torto persin maggiore.