LA SOSTENIBILITÀ non è un costo ma un investimento nel futuro. Una scelta etica ma anche economica per non finire fuori mercato. E l’uscita dalla pandemia può essere l’occasione per accelerarla.
Michele Crisostomo, presidente di Enel, che cosa è la sostenibilità?
"È una domanda che mi sono fatto tante volte. La sostenibilità entra come parametro in tante azioni, come una sorta di accudimento di valori di lungo periodo, la conservazione per il futuro di qualcosa a cui teniamo: natura, risorse, benessere, buon vivere. Parte dalla vita in famiglia e va poi declinata nei singoli settori industriali e a livelli macro. Da utility, dobbiamo ragionare su cosa è, nel nostro business, la sostenibilità. Quale è il pezzo di mondo che riusciamo a tenere indenne per le generazioni future, quale è il valore che riusciamo a generare per le comunità dove andiamo ad operare. Perché ci piacerebbe che anche i nostri figli possano vivere in un pianeta sottratto ai fenomeni innescati dal cambiamenti climatico, che possano vivere in un ambiente meno degradato. Per farlo bisogna realizzare un modello di business efficiente da un punto di vista economico ma che non bruci risorse lasciando solo cenere. E si può fare, già lo stiamo facendo".
Per l’impresa la sostenibilità è soprattutto un costo o anche una opportunità?
"Nessuna delle due. La sostenibilità è un investimento. Per Enel essere sostenibile significa organizzare tutti i suoi processi di business seguendo obiettivi che siano meritevoli di attenzione e condivisi in maniera diffusa. Ridurre le diseguaglianze anche nell’accesso all’energia, perseguire un ambiente più pulito quindi lottare contro il cambiamento climatico riducendo le emissioni, aumentando il tasso di elettrificazione e lavorando sulla digitalizzazione delle reti. Quello che si fa in questa direzione non è un costo, ma un investimento nella prospettiva duplice del conseguimento di target di tipo economico ma anche ambientale e sociale".
Che succede alle aziende che non guardano alla sostenibilità? Rischiano di finire fuori mercato?
"Rischiano di trovarsi disallineate dal comune sentire. Se non tengo conto che si sta formando una opinione diffusa che si traduce poi anche in comportamenti di consumo, se con capisco che il consumatore comincia a interrogarsi sulla provenienza dei beni e servizi che acquista, nel medio e lungo periodo credo che chi non corrisponde all’aspettativa dal consumatore rischia di finire effettivamente fuori dal mercato. Quindi per una azienda la scelta non è solo etica, ha anche una forte connotazione economica".
Quanto conta la crescente presenza di una categoria di ‘nativi della sostenibilità’?
"Influisce in maniera per me cruciale. E conterà progressivamente sempre di più mano mano che cresceranno i ragazzi che oggi non hanno capacità di spesa. Come per i nativi digitali è impensabile acquistare un cellulare analogico, per i nativi della sostenibilità sarà impensabile domani acquistare elettricità senza preoccuparsi della fonte da cui quella elettricità è prodotta".
Un settore green nel quale l’Italia è indietro è il trasporto pubblico elettrico. C’è spazio per affermarlo e creare anche una filiera industriale?
"Non siamo i soli a essere in ritardo. È l’Europa ad essere indietro rispetto alla Cina e al Sudamerica. Ma lo spazio c’è. Partiamo dall’idea di città che vogliamo: ci piace o no avere una città nel quale gli autobus non inquinino? Se la riposta è sì, come credo, allora occorre dotare le città di infrastrutture dedicate, alimentate con elettricità prodotta da fonti rinnovabili, che permettano di avere una città meno inquinata e più silenziosa. E può avere senso avviare un piano pubblico di sostituzione delle flotte del trasporto pubblico con autobus elettrici. In questa maniera creeremmo una domanda e quindi i presupposti perché si crei anche una offerta adeguata, dove le aziende italiane del settore – la cui eccellenza nella produzione di veicoli tradizionali è riconosciuta internazionalmente – in prospettiva potrebbero giocare un ruolo primario non solo nel mercato italiano ma anche in Europa, dove ad oggi non ci sono campioni nella produzione di bus elettrici. È una grossa opportunità".
Questo può valere anche per la produzione di pannelli fotovoltaici? O è troppo tardi?
"Non è troppo tardi perché rispetto ai produttori asiatici abbiamo ancora il primato dell’innovazione e della tecnologia, come dimostra la nostra fabbrica di Catania, la 3SUN, dove è stata sviluppata la più innovativa tecnologia nel campo dei pannelli bifacciali, con uno dei più alti valori mondiali di efficienza della cella fotovoltaica. La transizione energetica genera una domanda di prodotti di qualità. E combinando innovazione con la capacità manifatturiera del nostro Paese si possono creare posti di lavoro, generare indotto e crescita anche nel settore della produzione di pannelli fotovoltaici, di aerogeneratori, batterie e altre tecnologie per la transizione energetica".
Viviamo tempi difficili. Il coronavirus è un freno a un processo che sembrava essere avviato in maniera molto costruttiva o i vari recovery plan potrebbero essere un volano della transizione?
"Sono convinto che l’uscita dalla pandemia sarà un acceleratore della transizione energetica. Già lo vediamo con i nostri occhi. Durante la pandemia, con la riduzione del consumo elettrico che c’è stata, il sistema è stato in buona parte alimentato con fonti rinnovabili. E’ stato un punto di verifica concreta che il sistema elettrico puòa essere alimentato con energia in larga parte prodotta con fonti rinnovabili, con le fonti termiche come essenziale backup. Abbiamo visto che funziona. E avendo ora una opportunità di avviare un percorso di investimenti molto significativo per uscire dalla crisi possiamo dargli un contenuto di quarta rivoluzione industriale, dando un forte e decisivo impulso alla transizione energetica. Ora è il momento".