ARNALDO LIGUORI
Editoriale e Commento
Editoriale

Miliardarie di casa nostra

C’è un dato riguardo al superamento del divario tra uomini e donne che pone l’Italia in cima alle classifiche internazionali. Non è la parità di salario, dove siamo 79esimi al mondo. Non è l’accesso alle opportunità economiche per le donne (104esimi), né la partecipazione delle donne al potere politico (64esimi). Niente di tutto questo. Il dato che ci mette al quarto posto al mondo – dopo Stati Uniti, Cina e Germania – è un altro: il numero di donne miliardarie.

In Italia ci sono 70 persone con un patrimonio superiore al miliardo di dollari: 19 di loro sono donne. Questo, si potrebbe dire, è una conquista. Certo, ma l’ipotesi è sfidata dai cognomi che si leggono sulla lista: Prada, Zampillo, Caprotti, Berlusconi, Aleotti, Menarini, Benetton, Doris. Quasi tutti nomi legati a quelle che la letteratura anglosassone non esiterebbe a definire “dinastie” (molte delle quali milanesi).

Beninteso, questo non toglie un briciolo di merito a queste donne che gestiscono imprese multinazionali con migliaia di dipendenti in un sistema in cui, peraltro, sono spesso ostacolate da mentalità conservatrici e patriarcali. Tuttavia, prima di festeggiare quel quarto posto in classifica, meglio usare qualche cautela.

Uno dei maggiori studiosi mondiali della disuguaglianza, il francese Thomas Piketty, ha mostrato che nell’epoca attuale il livello della ricchezza ereditaria ha raggiunto un livello talmente alto da eguagliare, per la prima volta, quello della Belle Époque di fine Ottocento. Attenzione, quindi, a non confondere l’emancipazione femminile (nelle élite) con ciò che persino un pacato studioso come Piketty non esita a definire “l’ascesa della nuova nobiltà”. Perché c’è il rischio di lasciare indietro la meno appariscente maggioranza di donne sottopagate, escluse dal lavoro, dalla politica, dal potere.