Milano, 7 agosto 2016 - IL SIRIANO arrestato a Varese si preparava ad andare a combattere in Siria con i terroristi di Al Nusra, affiliati ad Al Qaeda. Il pakistano espulso a Vaprio d’Adda stava prendendo di mira l’aeroporto di Orio al Serio («è facile attaccare un aereo, c’è solo un filo...»), il marocchino espulso a Fidenza voleva punire i miscredenti, il tunisino trafficante di migranti preso nel Casertano inneggiava sul web alle stragi dell’Isis, reclutava nuovi adepti fra i clandestini e si diceva pronto a farsi martire. Tutti e quattro apparentemente insospettabili ma in realtà, secondo gli inquirenti, potenziali jihadisti. Individui pericolosi da mettere dietro le sbarre o da imbarcare sul primo volo per il suolo natio. Le espulsioni sono sempre più frequenti. E di fronte a un’escalation del terrorismo o in seguito a un eventuale attentato in Italia, le norme attuali saranno ancora più severe.
È MEGLIO l’arresto o l’espulsione degli aspiranti jihadisti? La maggioranza degli esperti di antiterrorismo ritiene che sia preferibile la seconda, un po’ per avere qualche criminale in meno da tenere d’occhio ma soprattutto per evitare che le prigioni, tra esaltati, imam e predicatori veri o sedicenti diventino una polveriera. Dietro le sbarre oggi ci sono molti criminali comuni musulmani, assassini, rapinatori, spacciatori che non sono ancora radicalizzati ma che in quell’ambiente, con quelle frequentazioni, potrebbero presto diventarlo. E l’espulsione è preferibile anche per un altro motivo: spesso capita che polizia e carabinieri fermino un sospetto che dopo qualche giorno viene liberato dai magistrati in mancanza di un robusto quadro probatorio. È vero che se uno viene rimpatriato, può riprovare a rientrare in Italia anche il giorno dopo ma si presume che, segnalato a tutte le intelligence, possa avere qualche difficoltà a farlo. I PRESUNTI fanatici fondamentalisti cacciati dal Paese negli ultimi giorni non avevano scritto in fronte «terrorista», non si erano resi protagonisti di fatti eclatanti, ma da tempo venivano tenuti sotto stretta osservazione dagli uomini dell’antiterrorismo che li pedinavano e ascoltavano le loro conversazioni, che conoscevano la loro attività su Facebook e WhatsApp. Ma la polizia ha bisogno di avere maggior collaborazione dalle comunità musulmane. Vorrebbe che i comportamenti sospetti venissero segnalati con tempestività. Sotto questo punto di vista il cosiddetto Islam moderato non ha fatto granché. Contro il fondamentalismo non sono sufficienti generiche prese di distanza, timide condanne dei massacri, non basta andare, una tantum, in segno di solidarietà domenica a messa con i cattolici. Il vero aiuto può arrivare solo dalla denuncia degli aspiranti jihadisti e dei loro reclutatori. Le radicalizzazioni vanno individuate, isolate, combattute e fermate dalle comunità islamiche prima che dalle forze dell’ordine. Finora non è andata così. giuliano.molossi@ilgiorno.net