Nel quartiere San Siro di Milano c’è una scuola elementare dove gli alunni sono tutti stranieri e sono tutti nati in Italia. Manifestazione plastica di quella che sembra quasi una contraddizione semantica. La parola straniero deriva da una parola latina che significa “estraneo, esterno”, qualcosa “al di fuori”. Quei bambini sono venuti al mondo qui, studiano e giocano qui, tifano le squadre locali, conoscono solo questo paese, si sentono italiani – dice la preside – e qui immaginano progetti di vita. Ci vuole, insomma, una faticosa elaborazione intellettuale per definire “estraneo” uno di quei bambini.
C’è un dato di realtà da tenere ben presente quando si parla dello Ius Scholae, cioè la proposta di legge che permetterebbe ai bambini nati da genitori stranieri di ottenere la cittadinanza italiana a patto che abbiamo completato almeno 5 anni di studio, in uno o più cicli scolastici. Ovvero che la scuola italiana è popolata da alunni senza cittadinanza italiana. Sono quasi un milione, 230mila solo in Lombardia. Due terzi sono nati in questo Paese, gli altri sono perlopiù arrivati via mare o via terra. Hanno storie diversissime, singolari, uniche, eppure tutti loro condividono una cosa: l’obbligo di rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno. Il permesso, cioè, di vivere dove studiano, giocano e sognano un futuro.