Venti secondi sono troppi per reagire a una violenza sessuale. È con questa motivazione, in estrema sintesi, che la Corte d’appello di Milano ha assolto un sindacalista accusato di abusi nei confronti di una hostess che si era rivolta a lui per chiedere aiuto in una vertenza sindacale.
Al di là del caso in questione, qui è il principio che riporta l’Italia – come ha dichiarato la difesa della presunta vittima – indietro di trent’anni. Perché tradisce una logica che persino all’uomo comune pare lapalissiana: se una donna ci mette qualche secondo per dire “no”, non significa che quel ritardo sia una dichiarazione di consenso. Non dovrebbero neanche servire gli studi scientifici che hanno rilevato particolari forme di paralisi e annichilimento in molte vittime di violenza sessuale. Ma mettiamo in fila qualche linea guida.
Primo. Il consenso all’atto sessuale deve sussistere nel momento del rapporto e deve permanere per tutta la sua durata.
Secondo. Il consenso prescinde dal comportamento eventualmente provocatorio tenuto in precedenza dalla vittima.
Terzo. Il dissenso deve ritenersi presunto, salvo prova contraria. Perché non sussista violenza sessuale serve quindi un consenso esplicito.
A esprimere tutti questi principi non sono (solo) i movimenti contro la violenza sulle donne, ma diverse sentenze della Corte di cassazione, cioè la suprema corte italiana. Ed è proprio a questo alto tribunale che le avvocate della hostess faranno ricorso. Vada come vada, in questo Paese alcune idee devono essere ribadite, ancora e ancora. Nei tribunali e, soprattutto, fuori da essi.