SANDRO NERI
Editoriale e Commento

Sindrome Bersani

E la storia insegna qualcosa bisognerebbe ricordarsi del caso di Pier Luigi Bersani

Milano, 1 aprile 2018 - E la storia insegna qualcosa bisognerebbe ricordarsi del caso di Pier Luigi Bersani. L’allora segretario del Pd, nonostante avesse conquistato sul filo di lana il premio di maggioranza alle elezioni del 2013, prendendo soltanto lo 0,4 per cento in più di voti del centrodestra alla Camera, smaniò per avere l’incarico di formare il nuovo governo. E il Quirinale, applicando il principio del rispetto della volontà popolare, glielo conferì, visto che il Pd era risultato comunque il primo partito. Sappiamo tutti come è andata a finire: con le consultazioni infruttuose, il diniego del centrodestra di portare i suoi voti al mulino del segretario dem e con l’impietoso streaming dell’incontro con la delegazione del Movimento 5 Stelle, dal quale emerse il disprezzo e l’aria di sufficienza con cui i pentastellati trattarono, quasi ridicolizzandolo, il presidente del Consiglio incaricato. Sia ben chiaro, l’esito delle elezioni del 4 marzo scorso non è paragonabile al pareggio a tre di cinque anni fa.

Questa volta due vincitori ci sono e si chiamano Lega e Movimento 5 Stelle. Nessuno dei due ha i numeri per governare da solo, ma entrambi hanno qualche cartuccia da sparare per riuscire nell’impresa di costituire un nuovo esecutivo. Proprio perché, però, siamo ancora alle schermaglie iniziali e alla pretattica, sia Matteo Salvini che Luigi Di Maio, a differenza del Bersani del 2013, non scalpitano per avere subito l’incarico dal presidente Sergio Mattarella. Essendo ancora molto distante la quadra su programma e composizione dell’eventuale governo, il primo incarico potrebbe essere di natura meramente esplorativa. E il rischio di bruciarsi è molto elevato, perché la storia politica italiana insegna che ben difficilmente gli esploratori finiscono a Palazzo Chigi. Sono stati sicuramente molto più frequenti i casi in cui chi viene incaricato di esplorare finisce per aprire la strada al vero candidato del Quirinale in grado di superare le rigidità che in prima battuta i partiti pongono di solito all’esploratore. In altre parole, Salvini ha già detto che non si vede ministro di un governo Di Maio. E quest’ultimo sembra impuntarsi sulla questione premiership. Appare dunque molto probabile che nessuno dei due possa ricevere subito il mandato a formare un governo, stante l’indisponibilità ufficiale del Pd ad appoggiare governi fatti dal centrodestra o dai 5 Stelle. Se invece Mattarella, per lasciare decantare le divisioni e le tensioni post-voto, decidesse di affidare a un soggetto istituzionale (il presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati?) l’incarico di verificare possibili convergenze in Parlamento, il lavoro di Salvini o Di Maio, qualora uno dei due ricevesse incarico pieno, risulterebbe più agevole. Ma non è detto che dopo settimane di stallo entrambi non si convincano che il proprio elettorato vuole un esecutivo che governi e disdegna l’ipotesi di un’ulteriore proroga dell’attuale governo Gentiloni. Sarà dunque un mix di saggezza quirinalizia e di ragionevolezza parlamentare a produrre la situazione definitiva per il governo.