Ogni tre giorni un detenuto si toglie la vita in carcere. In una vita scandita dai movimenti dei chiavistelli, da qualche ora d’aria, da un tempo che appartiene ad altri, ma anche – a giudicare da non poche inchieste giudiziarie – da violenze, soprusi e financo torture, è questa la verità ricorrente delle prigioni italiane: il suicidio. L’ultima persona che ha preferito la morte alle sbarre è un anziano di 75 anni detenuto a San Vittore, un edificio concepito per ospitare circa quattrocento persone ma che ne ospita, oggi, più di mille. In genere, al sovraffollamento si aggiunge la carenza di assistenza sanitaria e psichiatrica, l’inadeguatezza delle strutture e l’assenza di un orizzonte oltre la galera.
Ma a poco sembrano servire le polemiche di dignità. Di fronte alla miserabile esistenza di queste persone, che sono spesso ma non sempre dei criminali, c’è chi commenta: “Uno in meno da mantenere”. E poi ci sono i vertici del Governo che, replicando all’ipotesi di implementare misure sostitutive alla reclusione, rispondono: “Meglio costruire nuove carceri”. Con buona pace non solo del numero insostenibile di suicidi – sempre che ne esista uno sostenibile – ma anche dei dati sulla sicurezza: i detenuti che seguono un percorso alternativo, infatti, tornano a commettere reati solo nel 2-3% dei casi, rispetto al 70% di chi sconta tutta la pena in carcere. Non dovrebbe quindi sorprenderci che da luoghi come San Vittore una persona esca peggiore di come vi è entrata. Sempre che sopravviva.