La notizia è che siamo arrivati alla sentenza di appello bis nel processo sul caso noto come “Rimborsopoli”. E se anche voi avete un vuoto di memoria, è normale. Molti dei reati contestati risalgono a sedici anni fa, quasi tutti i protagonisti hanno abbandonato la scena pubblica e qualcuno è addirittura passato a miglior vita. Tra i mastodontici plichi dei magistrati, spuntano dei nomi che sembrano risorgere da un’epoca onirica e lontanissima: come Nicole Minetti, la celeberrima igienista dentale di Berlusconi, oppure Renzo Bossi, il “trota” figlio del fondatore della Lega Nord.
Il procedimento giudiziario, tra assoluzioni, rideterminazioni della pena, molte prescrizioni e poche condanne, ha impiegato più di dodici anni ad arrivare a una parziale conclusione (qualche capitolo s’ha da finire). Ripeto, dodici anni. Che in questi tempi di velocità ipertrofica rappresenta quasi un’era geologica. All’epoca dei fatti, per capirci, Facebook era un roba nuovissima e la nazionale italiana era campione del mondo in carica (da lì tutto sarebbe andato storto).
Ma la giustizia, si dirà, non deve mica seguire la fretta di questo pazzo mondo. Certamente, peccato che quella italiana sia letteralmente la più lenta di tutta l’Unione europea: per arrivare al terzo grado di giudizio in Francia ci mettono metà del tempo, in Spagna un terzo, in Germania un settimo. Attentati, stragi, mafia, corruzione: la cronaca dà quotidianamente aggiornamenti su inchieste aperte negli anni Sessanta o Settanta. Con vittime e carnefici – e con essi figli, nipoti e magari pronipoti – a cui resta solo una comune certezza: in questo santissimo Paese non si chiude mai niente.