Prima i presidenti del Veneto e della Campania, ora il sindaco di Milano: la tentazione del terzo mandato si aggira da tempo tra le sale dei governi territoriali. Ma se la riflessione pubblica spesso riguarda gli aspetti giuridici della questione – si cambia la legge, non si cambia, come si cambia – è sugli aspetti politici che andrebbe spesa qualche parola in più. In particolare sulla politica teorica, quella che affonda in secoli di repubblicanesimo e liberalismo.
Nel migliore dei mondi possibili, quello pensato da non pochi filosofi e sociologi, limitare i mandati politici ha diverse funzioni. Permette ai cittadini di informarsi ed esprimersi su nuove idee. Impedisce che una figura diventi troppo influente o centrale, preservando così l’idea che le istituzioni siano più importanti dei singoli individui. Evita che un solo stile di governo o una sola visione diventi dominante per lungo tempo, promuovendo innovazione e adattamento ai cambiamenti sociali. Infine – e qui ripeto, parliamo di teoria – una permanenza prolungata in carica può favorire la formazione di reti di interessi personali e clientelari.
Ora, quello in cui viviamo non è certo il mondo immaginato “sulla carta” dai politologi: nessun mandato è uguale a un altro e i limiti differiscono da Paese a Paese. Ma resta il principio, usando le parole di Piero Calamandrei, che il “continuo ringiovanimento della classe dirigente è la prima condizione di vitalità d’ogni sana democrazia”.