
"Da Barcellona a Pechino. Sedici anni di emozioni"
Poco più di un mese e Parigi ospiterà l’Olimpiade numero 33 dell’era moderna. Sulla canoa Antonio Rossi ne ha disputate cinque, come le medaglie vinte: tre ori, un argento e un bronzo. Sedici anni: dai (quasi) 24 di Barcellona ’92 ai (quasi) 40 di Pechino 2008. Una vita.
Un aneddoto divertente?
"Troppi e non si possono raccontare (risata, ndr)".
Un po’ come quella foto sulla copertina di Cosmopolitan nudo con la sola pagaia, che mandò su tutte le furie i vertici delle Fiamme Gialle e Lucia?
"No comment (altra risata, ndr)".
La più bella?
"Per i risultati Atlanta ’96 con i due ori. Nei mesi precedenti ricordo di aver sognato più volte la finale del K1 come poi è andata davvero. Non è una cosa voluta: sei così concentrato sull’obiettivo che visualizzi qualcosa che poi diventa realtà. Forse però l’emozione più grande è stata quella di essere il portabandiera a Pechino 2008: è arrivata solo una medaglia di “legno“ ma è stato un onore rappresentare l’Italia".
Oggi, a 55 anni, ci racconti come ha fatto quel ragazzino approdato alla canoa per caso a entrare nella storia?
"Ho iniziato alla Canottieri Lecco dove mio fratello Augusto faceva canoa. Nelle prime gare per la verità non andavo granché: ero poco muscoloso e poi essendo di dicembre, spesso incontravo avversari che avevano quasi due anni più di me. Poi sono venuto fuori grazie al duro lavoro e alle basi del nuoto".
Lucia è un altro “regalo“ della Canottieri?
"Ci siamo conosciuti lì da ragazzi, entrambi sulla canoa: anche lei è stata a Barcellona ’96".
Il primo alloro lo ricorda?
"È stato il titolo italiano in K2 nell’85 con Daniele Binda: battemmo Bonomi che poi diventò mio compagno di equipaggio. Da lì ho cominciato a sognare la vita da atleta, dedicandomi anima e corpo con passione. La stessa che papà metteva con i suoi pazienti: era un medico e la viveva come una missione".
Il segreto del successo?
"Allenamenti massacranti e maniacalità. All’epoca la tecnologia non esisteva, c’erano solo i primi cardiofrequenzimetri della Polar ma avevano solo due ore di memoria, così scaricavo i dati sulla carta millimetrata per poi formare un grafico con i riferimenti di “soglia“ che poi mandavo via fax al mio allenatore".
Il blackout prima di Sydney 2000?
"La vigilia di Natale ’99 muore mio padre e a marzo 2000 nasce Angelica ma non posso assistere al parto perché sono a Siviglia ad allenarmi. Da figlio divento padre e all’improvviso sono travolto dalle emozioni: in quel momento mi sembrava di giocare e invece mi sentivo sommerso dalle responsabilità verso la famiglia".
Come ne è uscito?
"Ho staccato per un po’. La Finanza e Oreste Perri mi sono stati vicini: ho ritrovato equilibrio e stimoli e a settembre è arrivato un altro oro".
L’amicizia con Yuri Chechi?
"Nel 1996 ad Atlanta anche lui vince l’oro. È nato subito un feeling: è venuto al mio matrimonio, mio figlio porta il suo nome e abbiamo fatto vacanze insieme con le famiglie".
E Alberto Tomba?
"Siamo nati lo stesso giorno (il 19 dicembre, ndr) e a volte abbiamo festeggiato insieme i compleanni. Uno spasso, sempre".
Ultimo di cinque fratelli: un vantaggio?
"Forse sì perché ho iniziato a fare sport con i fratelli maggiori e già da piccolo facevo cose con i più grandi. L’altro vantaggio è che negli anni la proverbiale severità della mamma si era un po’ stemperata. Sono stato pure l’unico dei fratelli ad avere gli esami a settembre al liceo. La punizione fu restare a Lecco: per me fu il massimo, passai l’estate sul lago in canoa".
Nel 2021 l’infarto: anche Antonio Rossi quindi è umano?
"Eccome. Ero alla Granfondo Pinarello: avevo appena bevuto a un ristoro, ho cominciato a sentire freddo al petto e formicolii al braccio sinistro. Le gambe non andavano, mi mancava il respiro ma mi seccava dire che mi stavo ritirando. Poi però ho capito che stavo sempre peggio: mi hanno portato con l’elicottero all’ospedale di Como".
Come è cambiato da allora?
"Pensi di essere un supereroe e in realtà capisci che non sei così indistruttibile".