DANIELE DE SALVO
Cronaca

Poliziotto morto, l'ora della rabbia: "Siamo stufi di farci ammazzare"

Colico, l’angoscia dei colleghi dell’agente precipitato dal cavalcavia

Nuova Olonio, il funerale del poliziotto Francesco Pischedda

Colico (Lecco), 6 febbraio 2017 - «Non è morto solo Francesco, con lui siamo morti tutti noi poliziotti, perché quando un nostro collega muore in servizio è come se morisse una parte di tutti noi. Quello che è successo a lui poteva e potrebbe succedere a ognuno di noi. Ogni volta che cominciamo il turno siamo consapevoli che potremmo non terminarlo vivi». L’ispettore capo alla questura di Lecco Alessandro Camerota, 47 anni, molti dei quali trascorsi a pattugliare le strade a bordo di una pantera e vicesegretario regionale del Coisp, Coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forze di polizia, conosceva Francesco Pischedda, l’agente di 28 anni della Stradale di Bellano morto dopo essere precipitato da un cavalcavia della Super a Colico mentre inseguiva un fuggitivo. In lui in qualche modo si riconosceva e riconosceva la propria storia, che poi è la storia di tanti poliziotti. «Era giovane e per noi rappresentava un patrimonio insostituibile, come tanti di noi aveva lasciato la propria terra per servire i cittadini e lo Stato. Sapeva quello che rischiava, lo sappiamo tutti, ma quando capita quello che è capitato a lui ci si chiede se ne valga la pena...».

Dal 1981 ad oggi i poliziotti morti in servizio sono 385: 165 in incidenti stradali di cui 48 investiti, 42 mentre si recavano al lavoro, 38 in vari delitti, 21 per terrorismo ed eversione, altrettanti in conflitti a fuoco, 18 in incidente con le armi, 18 per cause varie, 17 per mafia, 13 per malattie professionali, 11 in incidenti aerei, 11 per malori accusati durante il turno, 4 in catastrofi naturali, 3 in incidente ferroviari, 2 per disordini pubblici. Francesco, dopo otto anni di arruolamento e la nomina a agente scelto portava a casa 1.500 euro puliti, massimo 1.600 con gli straordinari, il riconoscimento dei festivi e i notturni. Giovedì aveva cominciato il turno alle 19: prima di montare alla guida dell’auto aveva ricevuto le consegne da chi il turno lo aveva concluso e aveva effettuato un breve breafing con gli altri due colleghi di pattuglia con lui, il capo equipaggio e un assistente.

Avrebbe dovuto terminare il servizio all’una, ma quando si è un poliziotto si sa quando si comincia, mai quando si finisce, perché basta un incidente, la cattura di un ladro, un controllo di uno straniero irregolare, un intervento dell’ultimo momento per doverlo prolungare di chissà quante ore. E, oltre a non sapere quando si finisce, non si sa neppure se si finisce. «Se bisogna correre, corriamo, se dobbiamo rischiare, rischiamo, è il nostro lavoro, è il nostro dovere», prosegue l’ispettore capo. È quello he ha fatto l’agente quando ha intercettato tre sconosciuti sul Fiat Fiorino rubato: li ha inseguiti, li ha speronati per provocare un testa coda e fermarli e poi, quando ne ha visto uno, schizzare fuori dal furgoncino, lo ha inseguito, anche se avrebbe potuto rimanersene al sicuro in macchina, «perché ogni criminale che riesce a scappare è una sconfitta personale per noi», spiega il collega rappresentante sindacale. Gli è stato addosso anche quando è sprofondato nel vuoto, «perché un delinquente non si molla mai, se lui gira l’angolo tu giri l’angolo anche se non sai cosa trovi dietro, se lui salta anche tu salti perché se lo fa lui puoi farlo anche tu e non puoi permettere che continui a far del male a qualcuno».