DANIELE DE SALVO
Cronaca

Lecco, il medico ogni giorno in trincea: “Hanno tentato di strangolarmi”

Il racconto dal pronto soccorso dell’ospedale Manzoni di Paolo Schiavo, 63 anni: “Una giovane mi ha messo le mani al collo, un’altra mi ha buttato a terra. Sono intervenuti gli infermieri”

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Paolo Schiavo lavora al Pronto soccorso dell’ospedale Manzoni di Lecco

Reparti di Pronto soccorso trasformati in trincee. Medici, infermieri e operatori sanitari costretti a guardarsi le spalle da attacchi a tradimento. Pazienti, familiari e accompagnatori che minacciano, insultano, picchiano, pretendono, perché vogliono saltare la fila, sono ubriachi o strafatti di droga, hanno problemi psichici, reagiscono male alla perdita di un proprio caro. Succede in Calabria come in Lombardia, a Foggia come a Lecco. “È capitato diverse volte anche a me – racconta Paolo Schiavo, camice bianco di 63 anni, da più di trenta in servizio al Pronto soccorso dell’ospedale Alessandro Manzoni di Lecco, oltre che medico del 118 e del Soccorso alpino –. Una giovane paziente a cui stavo prestando soccorso all’improvviso mi ha preso per il collo e ha tentato di strangolarmi. Sono rimasto attonito. Non ho fatto nulla, se non aspettare che mollasse la presa e che la furia, durata poi fortunatamente solo qualche secondo, passasse”.

Mantenere la calma però non è sempre facile.

“In un’altra occasione sono stato aggredito dalla compagna di un uomo con un quadro di intossicazione alcolica sdraiato su una barella. La sua compagna cercava di entrare nei locali protetti del Pronto soccorso per vederlo. Ho deciso di farla accedere e le ho presentato rapidamente la situazione, chiedendole di trattenersi il meno possibile perché lui non era in grado di fornire risposte e per permetterci di tornare al nostro lavoro.

Lei però mi è saltata addosso, mi ha buttato per terra, ha cercato di picchiarmi, ha preso la cornetta del telefono dal nostro bancone e ha tentato di pestarmela sulla testa. Sono intervenuti gli infermieri che l’hanno fermata e hanno impedito la mia reazione che in quel momento si stava sviluppata in maniera violenta”.

Perché secondo lei accade?

“Non si accetta più la morte non solo in ospedale, ma nella nostra società. Si ritiene che la morte non appartenga alla vita di ciascuno di noi. Le nuove misure per arginare gli episodi di violenza nei nostri confronti, servono da deterrente e sono quindi utili, ben vengano, ma ci deve essere la certezza della pena. Ed è fondamentale ristabilire il patto sociale che esiste e deve esistere tra i medici, gli operatori della sanità e i pazienti. Dobbiamo uscire dall’impasse che in ospedale vengano clienti, perché in ospedale vengono pazienti e questa situazione è frutto non solo di una degenerazione linguistica ma anche di impostazione gestionale”.