
Leila Borsa, volontaria legnanese di Emergency
Legnano (Milano) - "Ho visto la guerra. La guerra vera. Sparatorie nelle strade, ordigni che esplodevano. Prima erano bombe artigianali, poi sono diventati missili che cadevano durante la notte". Leila Borsa, infermiera legnanese di 32 anni, ha passato gli ultimi sette mesi nell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, nell’Afghanistan meridionale, a 500 km da Kabul. Qui ha vissuto il ritiro dell’esercito Usa, la capitolazione del Governo e l’ascesa al potere dei talebani, senza mai smettere di curare i feriti durante i combattimenti. Uomini, soprattutto, ma anche donne e bambini colpiti da proiettili, schegge e detriti. Nei casi più gravi straziati dalle mine. Non c’erano militari a proteggere i medici afghani e i tre internazionali (tra cui Leila) che operavano nell’ospedale, "l’unica protezione era continuare con la nostra missione: curare tutti quanti senza distinzioni – racconta l’infermiera, nel curriculum anche un master in Medicina d’urgenza e Area critica -. Nessuno aveva un motivo per colpire la struttura di Emergency, per questo non ho mai avuto paura. Solo una volta mi sono spaventata, quando una bomba è esplosa di notte vicino all’ospedale, svegliandomi di colpo. A luglio, mentre i combattimenti si intensificavano, abbiamo dovuto mandare in altre strutture i feriti più lievi e tenere solo i casi gravi. A volte si lavorava per 24 ore al giorno".
Leila è arrivata in Afghanistan a febbraio e ha lasciato il Paese il 30 agosto, pochi giorni dopo la morte di Gino Strada: "Mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Purtroppo l’ho conosciuto solo attraverso i suoi libri e quello che ha fatto. Aveva una grande idea di sanità: portare tutto il buono della medicina occidentale in luoghi dove ancora non esiste". Sono stati tanti i momenti indimenticabili nei mesi a Lashkar Gah, nel bene e nel male; sempre tra la popolazione, della quale ricorda l’immensa capacità di sopportare la sofferenza: "Ho visto una donna arrivare con una ferita al collo dopo un viaggio di molte ore, era in condizioni disperate. Neanche un mese ed è tornata a casa. E un bambino al quale abbiamo dovuto amputare le gambe: 3 giorni dopo girava sorridente su una carrozzina, spinto da un altro bimbo senza un braccio. Ma negli occhi e nelle parole, spesso incomprensibili, degli afghani ho visto tanta riconoscenza. Superiore a quella sperimentata in Italia". E un domani? "Mi piacerebbe tornare, c’è ancora moltissimo da fare".