PARABIAGO – Lo scorso 9 agosto un ombra si era distesa come un velo d’inchiostro sulla provinciale 149. Fabio Ravasio pedalava tranquillo, ignaro del destino che lo aspettava pochi metri più avanti. Nessuno avrebbe immaginato che quella curva sarebbe stata il suo ultimo respiro. Era stata Adilma Pereira Carneiro a scrivere l’epilogo. La mantide, cinica, con un cuore di pietra nascosto sotto la pelle liscia e il sorriso affabile era la compagna di Fabio che l’amava e la venerava come la madre dei suoi figli, ma quei gemelli non erano suoi.
Erano il frutto di un’altra vita, un’altra bugia, e per Adilma, Fabio non era altro che una pedina in un gioco più grande, dove l’unico premio era il denaro. Gli inquirenti hanno impiegato tre mesi per svelare il piano che aveva portato a quella notte maledetta.
Un intreccio perverso di avidità e tradimento, dove ognuno dei complici aveva un ruolo preciso, come in un meccanismo ben oliato. O così credevano. Adesso il Pm Ciro Vittorio Caramore ha chiesto il giudizio immediato per la brasiliana e per i sette complici dell’omicidio. C’era la Opel Corsa nera, un rottame abbandonato da anni che il meccanico Fabio Oliva aveva rimesso in moto per la macabra messinscena.
Alla guida, travestito con una parrucca, il figlio di Adilma, Igor Benedito, mentre accanto a lui il marito legale, Marcello Trifone, che si aggrappava al volante come un complice riluttante. L’amante di Adilma, il barista Massimo Ferretti, dirigeva l’operazione a distanza.
Lungo la strada, gli altri attori – il genero Fabio Lavezzo, l’amico Mirko Piazza, e il pusher marocchino Mohamed Dhabi – attendevano il loro momento. La trappola scattò in pochi secondi: la macchina puntò Fabio, la bicicletta si schiantò, il corpo rotolò sull’asfalto. Era finita. O almeno così pensavano. Ma il piano era pieno di crepe. La targa dell’auto, alterata in modo maldestro, fu la chiave che permise ai carabinieri di risalire rapidamente ad Adilma.
La donna si dichiarava innocente, ma il cerchio si chiudeva. Il primo a cedere sotto il peso della colpa fu il genero Lavezzo. La sua confessione aprì la diga: nomi, ruoli, dettagli. Tutto venne a galla. E poi c’era il movente, quel filo rosso che legava il sangue versato al desiderio di Adilma di impossessarsi del patrimonio di Fabio, manipolando documenti per far sembrare suoi quei figli che, in realtà, erano di Trifone. Adilma e la sua banda potrebbero comparire davanti alla corte d’assise prima di Natale.