SIMONA BALLATORE
Cronaca

Quando si "pogava" al Leoncavallo: Punkreas, il lato ruvido del rock

"Tutto è iniziato nel garage, ma un giorno si è aperta una crepa nel muro e mia mamma ci ha sfrattati"

I Punkreas

Parabiago (Milano), 26 febbraio 2017 - «Quando cominciano questi Punkreas si scatena uno strano parapiglia, simile a una rissa». Il primo articolo sul gruppo punk rock nato 29 anni fa fotografava così il debutto del “pogo” alle porte di Milano. Era il 1988. Titolo: “Fra creste alte e profili bassi”. Cippa, Paletta e Noyse lo recitano a memoria mentre si preparano insieme al batterista Paolo “Gagno” e al chitarrista Endriù al loro primo tour europeo: saranno a Londra per i 40 anni del Punk e porteranno “Il lato ruvido” (il loro ultimo album) ad Amsterdam e a Bruxelles prima di tornare a Milano - l’11 marzo al Magnolia - e di buttarsi alla composizione di un nuovo disco. Tutto ha avuto inizio nel garage di Paletta, al secolo Gabriele Mantegazza, in quel di San Lorenzo di Parabiago: «I vicini erano anche contenti, però un bel giorno si è aperta una crepa sul muro e mia mamma ci ha sfrattati, così ci siamo cercati una saletta».

Il primo concerto?

«In un teatro di Rescaldina. Quando abbiamo iniziato si sono alzati tutti, un pogo devastante. Il concerto è stato interrotto perché hanno strappato i cavi. Da lì il nostro primo articolo di giornale».

La svolta?

«Nel 1991: il concerto che ci ha aperto le porte non solo di Milano ma di tutta Italia è stato al Leoncavallo. Avevamo mandato una cassettina, c’erano già i pezzi “Il vicino” e “Fegato centenario”, e lì stava passando gente come i Mano Negra. La telefonata è arrivata a casa del Cippa, ha risposto suo papà: “Uè Angelo, ti ha ciamà vün che se ciama Leoncaval”. Il circuito dei centri sociali era fondamentale per la diffusione di musica e arti. C’era un sentire comune, un controcultura che ti permetteva di fare altro rispetto al mainstream. Suonare al Leoncavallo era un patentino di agibilità. Quando iniziamo o finiamo un tour ripassiamo sempre da lì».

Altri luoghi mitici?

«Il Rainbow, con un concerto che è entrato nella storia: erano arrivati in tanti, quattro volte più della capienza, ma i nostri ragazzi non si fanno rimbalzare facilmente, hanno sfondato le porte con i carrelli. Poi le Colonne di San Lorenzo, dove i punk della periferia si impossessavano della città, e la fiera di Sinigaglia in piazza Vetra; allo Zabrinski Point ci trovavamo a parlare di musica e in Statale sono nate un sacco di collaborazioni artistiche».

Gli incontri che vi hanno segnato?

«Ci sono state persone fondamentali, una di queste è stata Carlo Rossi, produttore italiano che purtroppo è venuto mancare in un incidente due anni fa e che abbiamo conosciuto grazie a Claudio Ungaro. Con lui abbiamo registrato anche “Pelle”: ha tirato fuori colori, sfumature, un modo di comporre che ci ha portato a un livello superiore».

Quando è diventato un lavoro?

«Noyse faceva Scienze Politiche alla Statale e cercava di portarla avanti il più a lungo possibile, ha fatto una tesi sulla musica alternativa nel panorama dell’hinterland milanese, già che c’era. Paletta e Cippa facevano i calzolai, operai calzaturieri per l’esattezza, a Parabiago. Non cercavamo scorciatoie, ma la musica era diventata un vero e proprio lavoro, così abbiamo deciso di metterci in società nel 1997, prendendo impegni reciproci e scommettendo sugli altri. All’inizio Paletta pensava ai pezzi in fabbrica: mentre tagliava la tomaia scriveva “Ogni civetta ha la sua casa….».

A proposito, come se la passa oggi il barbagianni a Milano?

«Come la civetta. La media borghesia sta precipitando pericolosamente verso una situazioni di povertà. Noi ci siamo abituati ma ci sono persone che devono farsi il callo, devono imparare a vivere e sopravvivere, e magari a essere felici, in una situazione di decrescita».

Come nasce “Il lato ruvido”?

«Per noi è più di un figlio. Abbiamo messo sul disco l’energia dei nostri esordi, coniugandola al nostro percorso artistico. La conferma è arrivata sotto varie forme, con la gente che ha una reazione fisica e pari ai grandi classici “Aca toro” e “La canzone del bosco”, e con questo tour europeo. La vendemmia».

Che effetto fa vedere due generazioni che saltano insieme ai vostri concerti?

«È miracoloso. Non sappiamo dare una spiegazione razionale. Arriva qualcosa che non è costruito a tavolino, capita spesso che vengano insieme papà e figli. Forse succede perché siamo molto eterogenei, o forse è l’attitudine con cui da 30 anni ci presentiamo al pubblico che partecipa a una festa collettiva. Il nostro camerino è sempre molto affollato, anche se magari tutto questo ci tiene lontano dal jet set. D’altronde a me (Paletta, ndr) e Cippa già a 14-15 anni non invitavano mai alle feste dei ricconi, ma noi avevamo la soffiata e la festa diventava una figata. È lì che abbiamo conosciuto Noyse, eravamo nel castello di una tipa, ci ha beccati sua madre mentre facevamo gli scherzi telefonici».