MARIO BORRA
Cronaca

Lodi, detenuto morto in carcere per un’emorragia. “Cause naturali, esclusa la violenza”

Il sindacato Sappe fa propria l’ipotesi che esclude un intervento esterno nel decesso di un 31enne brasiliano arrivato da poco dal carcere di Busto Arsizio

La consigliera regionale Roberta Vallacchi ha denunciato il sovraffollamento della prigione

La consigliera regionale Roberta Vallacchi ha denunciato il sovraffollamento della prigione

Lodi – Sarà l’autopsia a definire le precise cause del decesso del trentunenne di nazionalità brasiliana avvenuto tra le mura del carcere di via Cagnola venerdì sera. Ieri però intanto è stato comunque escluso che la morte sia sopravvenuta per cause esterne come un’aggressione. Anche dal Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe) è arrivata una smentita circa la possibilità che il detenuto sia morto per circostanze diverse da un’emorragia interna determinata da cause naturali.

“È assolutamente escluso che la morte del detenuto sia sopraggiunta per cause diverse da una problematica di natura fisica”, taglia corto Donato Capece, segretario generale della sigla sindacale. Il trentunenne era arrivato da pochi giorni alla casa circondariale di Lodi, esattamente dal 3 ottobre, dal carcere di Busto Arsizio “per motivi di ordine e sicurezza”, come ha sottolineato il rappresentante sindacale.

A diffondere la notizia della morte del recluso attraverso un post sui social era stato Andrea Ferrari, segretario provinciale Pd nonché volontario all’interno dell’istituto di pena, che era venuto a conoscenza della tragedia sabato mattina in via Cagnola dov’era impegnato nella redazione del giornalino del carcere.

Solo alcuni giorni prima, seppur lodando le molteplici attività di aggregazione messe in atto dalla Direzione della casa circondariale, la consigliera regionale Roberta Vallacchi, in visita alla struttura, aveva denunciato il sovraffollamento delle celle, ribadendo che attualmente il carcere ospita oltre ottanta detenuti quando ne potrebbe contenere solo quaranta. Il 60 per cento è costituito da tossicodipendenti, molti dei quali potrebbero accedere alla pena alternativa nelle comunità terapeutiche per consentirne la cura in un luogo idoneo e per alleggerire le carceri che scoppiano. Ma la lista d’attesa è lunga per carenza di posti.