
Un controllore in metropolitana
Milano - "Biglietto, prego". Che tempi. Oggi a un nostalgico sentimentale non dispiacerà l'idea di un riscontro del green pass sui mezzi pubblici: si troverebbe in scenari e in rappresentazioni desuete della commedia umana. Oltre ad Aldo, Giovanni e Giacomo e all'arcinoto, agrodolce siparietto.
Per quel che può ricordare chi vi scrive, sul variegato parco semovente dell'Atm, a metà degli anni Settanta (dopo Cristo), non era difficile imbattersi in un controllore. Il quale, manco a dirlo, faceva il suo mestiere: controllava. La categoria aveva sviluppato un istinto raffinato per i contravventori. Non li cercavano col lanternino, non serviva. Li aspettavano alle fermate, quando gli sciagurati tentavano vie di fuga irrituali, scendendo dalle porte sbagliate. Era una vera battuta di pesca. Una tonnara. Perlopiù di studenti male in arnese. Il biglietto aveva poi una maligna proprietà: tendeva a scadere o a perdere il riscontro della vidimazione, come se le obliteratrici stampassero solo con inchiostro volatile. Discussioni a non finire. Perché il controllore accettava il contraddittorio, sicuro di vincere. Il funzionario si materializzava all'improvviso, forse per teletrasporto. In divisa. Con tanto di cappello incerato e spolverino blu. Ed era sempre autunno, il caro e sfinente autunno milanese dal cielo invisibile. Coincidenza meteorologica: piovevano multe.
I passeggeri, all'apparire del convitato Atm, fingevano indifferenza. Ma nel segreto del loro cuore fremevano. Spesso la sola idea che ci fosse un controllore attivo nel raggio di due anni luce bastava a perturbare gli animi: la sola parola faceva rizzare le setole ai potenziali - anche ignari – contravventori. Siamo sinceri: quasi nessuno viaggiava deliberatamente di frodo. Diciamo che, specie da studenti non provvisti di abbonamento mensile o col medesimo scaduto, si predeva un tram o un autobus con una certa disinvoltura, magari col biglietto fuori corso solo da pochi minuti. O vidimato più volte, a vanvera. All'uomo preposto al controllo non interessava la nostra disinvoltura in transito: a gambe larghe sulla piattaforma in movimento, avvezzo a stare in equilibrio tra i marosi del traffico, compilava plastico e ginnico il suo verbale. Le multe potevano essere assai dolorose. Rari erano tuttavia i casi di opposizione violenta alla contravvenzione. Perché il controllore, all'occorrenza, sapeva anche imporsi fisicamente. Li sceglievano forse tra ex soldati della legione straniera, tra reduci del Vietnam o tra i villeggianti del bagno penale della Cajenna, fatto sta che gli antichi contollori della municipalizzata meneghina erano temuti e rispettati, ancorché detestati.
A volte alla multa era allegato verbalmente un predicozzo sul senso del rispetto per le regole, la convivenza civile. Impensabile oggidì: finirebbe a coltellate o a gavettoni di acido muriatico. Ma allora ci stava: sul controllore aleggiava un'aura di rispetto che aveva un nome: Autorità. Nessuno di noi, beccato in fragranza, multato e redarguito, si era sentito privato di qualche scampolo di libertà. Già, ma a quei tempi – per dirla con Gianni Brera – eravamo dei ciòlla. Una notte sognammo di viaggiare gratis per Milano in un tram pieno di sole, lungo verdi bastioni. Il capolinea era una proda arborea dove controllori policromi, vestiti di piume come il Papageno del Flauto Magico, liberavano pettirossi al suono del flauto. E nessuno, beati noi, sapeva cosa fosse il green pass.