di Giambattista Anastasio
Dodici ore in meno di assistenza alla settimana. Un taglio del 35% rispetto al monte ore garantito fino al mese scorso. Detto altrimenti: i giorni di cura assicurati alla piccola Roberta – appena 5 anni – scendono da 6 a 4. Sono queste le conseguenze di quella carenza di infermieri che da mesi sta mettendo in seria difficoltà decine e decine di bambini e adolescenti con disabilità talmente gravi da dover essere assistiti a domicilio. E con essi le loro famiglie e gli enti che si occupano di questo servizio dietro accreditamento della Regione Lombardia. Sono queste le ricadute dell’immobilismo delle istituzioni di fronte a questa emergenza nell’emergenza. L’immobilismo del Governo e del Ministero della Salute, in primis. E della Regione, poi: in questo caso un tavolo di lavoro è partito ma non ha ancora dato alcun risultato concreto.
Fortunato Nicoletti, nel frattempo, ha detto "no". Ha deciso di non firmare il nuovo Piano Assistenziale Individualizzato (PAI) proposto dalla ATS Città Metropolitana per la sua Roberta. Un piano al ribasso, come appena sintetizzato, proprio a causa delle difficoltà a reperire ed arruolare infermieri disposti ad occuparsi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), difficoltà drammaticamente acuitesi con la pandemia, che ha fatto notevolmente aumentare la richiesta di operatori sanitari non solo per i reparti degli ospedali pubblici e privati, ma anche per i centri vaccinali e i punti tampone. Tutte attività, queste, decisamente meglio remunerate, e talvolta anche meno impegnative, di quelle necessarie per seguire a domicilio un bambino o un adolescente con disabilità gravissima, come nel caso di Roberta, che deve essere seguita 24 ore su 24. La svolta è arrivata con il nuovo anno: "L’ATS – racconta Fortunato – ci ha proposto un piano che garantisce 22 ore di assistenza, divise su 4 giorni a settimana, in sostituzione delle 34 ore, divise su 6 giorni, finora garantite a Roberta. Una riduzione di questo genere non è accettabile, stiamo parlando di bambini con elevate fragilità: chi si prende la responsabilità se dovesse succedere qualcosa quando non c’è l’infermiere e l’assistenza infermieristica?". Fortunato, da padre e da vicepresidente dell’organizzazione di volontariato “Nessuno è Escluso“, è stato tra i primi a sollevare il velo sulla situazione di grave difficoltà nella quale si dibattono gli enti accreditati che si occupano di Assistenza Domiciliare Integrata, soprattutto sul fronte dei minori. L’altro fronte è quello di adulti e anziani che spesso, però, presentano meno complessità. "Roberta – sottolinea suo padre – è solo una delle bambine e dei bambini che hanno dovuto subire pesanti riduzioni delle ore previste dal PAI. Anziché migliorare, la situazione dell’assistenza domiciliare per i minorenni sta via via peggiorando – scandisce Fortunato –. In Regione hanno istituito un tavolo di lavoro ad hoc ma non hanno invitato le associazioni delle famiglie, che conoscono il problema perché purtroppo lo vivono tutti i giorni. Per ora si tratta di un “tavolo interno“, non è dato sapere quali misure si stiano discutendo".
Non più tardi di ieri, sempre su queste pagine, Maurizio Marzegalli, vicepresidente della Fondazione Maddalena Grassi, tra gli enti che da più tempo si occupano di assistenza domiciliare integrata ai minori, ha chiesto di varare un provvedimento che consenta anche ad altre figure professionali di intervenire in soccorso del minore per lo meno nei casi di "urgenza non differibile". Oggi possono intervenire in modo diretto e concreto solo gli infermieri, perché la categoria rientra tra il personale sanitario. E solo i caregiver famigliari, vale a dire le mamme e i papà che si prendono cura dei figli non autosufficienti anche se – si badi al paradosso – non sono qualificabili come "personale sanitario". Restano escluse, quindi, figure quali gli Operatori Socio Sanitari (OSS) o gli Assistenti Famigliari che potrebbero alleviare – non ancora risolvere – il problema della mancanza di infermieri in attesa che il Governo e le Regioni si decidano ad incrementarne il numero.
L’altra misura che potrebbe aiutare a risolvere il problema della mancanza di personale infermieristico per i minori con disabilità gravissima è un aumento delle retribuzioni riconosciute agli stessi infermieri. Ma in Lombardia, come detto, sono i privati (profit e no profit) ad occuparsi dell’ADI. E la Regione, benché si tratti di realtà accreditate, non può finanziare l’aumento delle retribuzioni di dipendenti privati. Bisognerebbe quindi ritoccare le tariffe in base alle quali vengono retribuiti gli infermieri che lavorano nell’ADI. E la Regione potrebbe procedere al ritocco, se non fosse che, come sottolineato da Uneba Lombardia, l’ADI è ancora un’unità d’offerta sperimentale e non ha un identificativo nel tariffario nazionale. Inoltre servono tariffe molto più alte delle attuali, ma queste si tradurrebbero, per la Regione, in rimborsi a loro volta molto più alti.