Milano – “Ho preso un granchio” è il titolo, e come tutto il resto, dall’idea alla sceneggiatura all’interpretazione, è farina del sacco di venticinque ragazzi tra i quindici e i ventiquattro anni, metà pazienti e metà ex pazienti del reparto di Oncologia pediatrica dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano.
Nel titolo, gioco di parole intorno alla parola cancro che sin da Ippocrate e Galeno è usata per la malattia ma (non solo in astrologia) significa granchio, c’è il senso, anzi “il doppio senso” di raccontare, “con autoironia e anche un po’ di black humor, la vita in ospedale di chi in adolescenza s’è trovato a gestire questa fregatura. E che insieme alle persone giuste, agli amici, anche nel contesto di una malattia così apparentemente assurda a quell’età, alla fine ce la si fa. È un messaggio molto bello nel quale credo le persone si immedesimino. Io dai ragazzi ho imparato tantissimo”, dice l’oncologo pediatra Andrea Ferrari che dal 2010 coordina il Progetto Giovani dell’Istituto, sostenuto dalla Fondazione Bianca Garavaglia. Un incontro settimanale il mercoledì, e un progetto al quale lavorare ogni anno, “usando il filtro della creatività per dare ai ragazzi strumenti per raccontarsi”: la fotografia, la musica - “Palle di Natale”, brano più videoclip del 2016, ha avuto venti milioni di visualizzazioni -, e nell’ultimo anno e mezzo la web-serie “Ho preso un granchio”.
Sette episodi da sette minuti girati nell’ambulatorio di oncologia pediatrica, scritti, diretti e interpretati dai giovani del progetto con la supervisione dei professionisti della onlus Mediafriends e, sul finale, un guest-starring di Aldo, Giovanni e Giacomo: Storti interviene nella penultima puntata, nell’ultima c’è il trio al completo e la potete vedere domani 18 novembre in seconda serata su La 5 (canale 30 del digitale terrestre), o in replica martedì 19 alle 17 su Cine34.
Su Mediaset Infinity l’intera web-serie sarà disponibile per un anno, nel quadro di una campagna di sensibilizzazione perché il Progetto Giovani è nato con uno scopo: accendere i riflettori sulla necessità di avere reparti e protocolli dedicati agli adolescenti con cancro, che hanno “peculiarità mediche” e “meno probabilità dei bambini di essere curati nei centri di eccellenza, per diverse neoplasie anche di guarire”, chiarisce la primaria dell’Oncologia pediatrica dell’Int Maura Massimino, a causa di ritardi nella diagnosi o mancanza di terapie specifiche. “L’immunoterapia, le terapie target stanno cambiando la cura del cancro più rapidamente per gli adulti - aggiunge il dottor Ferrari –. Per ragioni mediche, ma anche perché ci sono meno investimenti in ricerca, e a volte per cause burocratiche: se un sedicenne ha un tumore dell’adulto è assurdo che non abbia accesso a un farmaco approvato per gli over 18; viceversa, un ventunenne con un rabdomiosarcoma deve poter essere curato in un reparto pediatrico che ha il protocollo giusto. Stiamo lavorando con vari gruppi nazionali e internazionali per cambiare le cose”.
Ma, come avviene spesso nella scienza, anche il Progetto Giovani è partito cercando una cosa e ha trovato anche qualcos’altro: se gli domandate come ha visto cambiare i ragazzi passati nel suo reparto in questi quasi quindici anni, la risposta del dottor Ferrari è che “sono stati loro a cambiare noi, il nostro modo di intendere la relazione. Prima si tendeva a lasciarli nelle loro stanze: un adolescente malato è arrabbiato giustamente, vuol far passare i giorni della chemio, i nove mesi della cura il più rapidamente possibile. Sono stati loro a insegnarci che se ci mettevamo in gioco, in ascolto, potevamo capire da loro i loro bisogni. Ad esempio che qualche volta il medico può togliersi il camice perché in quel momento è più importante essere al fianco del paziente in un percorso difficile, ma comune”.
Scene di quotidianità raccontate dai ragazzi nella sitcom, e “forse sorprenderanno i temi - dicono Edoardo e Marta, due dei venticinque – ma sono quelli che alla nostra età contano: come ti vedi allo specchio, come ti sai o non ti sai relazionare agli amici, alle ragazze”. Il filtro dell’ironia, aggiunge Marco, “rende comunicabili, ridendoci su, tematiche che per noi leggere purtroppo non sono. È stato davvero terapeutico”.
“La diagnosi, la chemio sono un trauma e i ragazzi devono poterlo tirare fuori per riuscire ad elaborarlo – sottolinea il dottor Ferrari –. Chiaramente il bisogno di raccontare la loro malattia apre uno scenario delicato e complesso, dai problemi legati ai social al diritto all’oblio. In ospedale, con gli psicologi, ci concentriamo per offrire ai ragazzi un percorso protetto”.