Milano – "Ho accolto nelle mie comunità anche ragazzi del Corvetto, stranieri e italiani. La mia impressione è che in una società competitiva come la nostra si sentano scartati, allora scattano meccanismi che possono portare alla rabbia, manifestata anche in modi violenti come quelli che abbiamo visto in questi giorni". La riflessione è di don Massimo Mapelli, di Caritas Ambrosiana, che ha fondato l’associazione “Una casa anche per te” e che gestisce diverse comunità per minori stranieri non accompagnati e non solo.
Pensa che la rabbia sia frutto di problemi precedenti, non risolti?
"Sì. La rabbia esplosa con questo episodio, la morte di Ramy Elgaml, è precedente. Pensiamo agli adolescenti che vivono al Corvetto, e in generale nelle periferie considerate difficili, nei contesti popolari: molti sono ragazzi italiani di seconda generazione, alcuni nati qui da genitori stranieri, mentre altri hanno raggiunto la famiglia in un secondo momento. Chi dialoga con questi ragazzi, chi si preoccupa di far crescere questa generazione come parte della città? Il punto è questo: devono sentirsi “veri” cittadini. Ma spesso trovano in deserto attorno a loro".
Nelle vostre comunità affrontate questo percorso?
"Nelle nostre comunità accogliamo minori stranieri non accompagnati, che arrivano qui da soli, senza riferimenti familiari. E sì, il nostro obiettivo è proprio lavorare per l’integrazione, perché si sentano parte della città. Per i ragazzi che vivono nel quartieri, le cui famiglie magari hanno strumenti limitati, sia economici, sia culturali e sia sociali, chi lo fa? Mi vengono in mente le parole del padre di Ramy, il quale ha detto che suo figlio si sentiva più italiano che egiziano. Ecco, la condizione di molti giovani di seconda generazione è questa: il sentirsi parte di questo Paese ma senza esserlo veramente. Essere cresciuti qui, sentirsi italiani, però non esserlo. Quindi essere trattati come diversi. È uno smacco. Questo indubbiamente crea risentimenti".
Che fare, quindi?
"Ci vuole un accompagnamento educativo e di cittadinanza, non solo la repressione. Altrimenti si torna punto e a capo. E penso ancora ad altre frasi pronunciate dal padre di Ramy: ha detto che la sua famiglia si dissocia dalla violenza, che ha fiducia nella magistratura. Ecco, lui vuole la verità per Ramy ma non la pretende con la violenza. Un ragionamento assolutamente sensato, condivisibile, che rispetta pienamente le regole. L’obiettivo deve essere quello di portare anche i più giovani a riflettere in questo modo. E per farlo non può esserci la repressione".
Lei vive a contatto con i ragazzi?
"Sì, a fianco degli adolescenti delle comunità. Vogliono essere ascoltati. Sanno di poter dare tanto. Lo stesso Ramy stava cercando la sua strada, era un elettricista. Alcuni abbandonano lo studio e imparano lavori che sono molto richiesti ma che pochi, oggi, vogliono svolgere. Però attenzione: i giovani stranieri, che siano minori non accompagnati oppure qui con le loro famiglie, non devono essere esclusivamente le braccia dei lavori che ci mancano. Con sé portano tutto il loro vissuto, il loro essere. Non vogliono sentirsi messi da parte in una società competitiva, hanno dei sentimenti che devono essere considerati. È come se ci andassero bene per quei lavori ma non per tutto il resto. Invece dobbiamo considerarli dei nostri e farli sentire tali. Veri cittadini milanesi".
Il Corvetto è diverso da altre realtà?
"Il Corvetto è simile a tanti altri quartieri dove si ripetono le stesse dinamiche. Bene la presenza di associazioni, di educatori. È l’unica strada da percorrere per vincere la sfida".